• Tutela dei consumatori - Trasparenza e tutela dell'utenza -Tecnologie dell'informazione e della comunicazione (ICT)

11 giugno 2019

Un host provider può essere costretto a cercare a livello mondiale tutti i contenuti illeciti pubblicati da uno stesso utente sulla propria piattaforma e rimuoverli?

di Annalisa Spedicato

Un giudice nazionale può ingiungere ad un host provider di ricercare ed individuare, tra tutti i commenti pubblicati dagli utenti sulla sua piattaforma, informazioni riconducibili ad uno stesso utente, identiche o equivalenti a quella giudicata illecita dal giudice stesso perché diffamatoria.

Questo il recente parere dell’Avvocato Generale della Corte Europea che, chiamato ad esprimersi sulla corretta interpretazione della direttiva sul commercio elettronico (Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell'8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno) dai giudici austriaci, nel caso C-18/2018, ha precisato che, sebbene sia vero che in base alla suddetta direttiva, un host provider, in linea generale, non può essere ritenuto responsabile delle informazioni memorizzate da terzi sui suoi server quando non sia a conoscenza della loro natura illecita, né può essere imposto allo stesso un obbligo generale di sorveglianza o di indagine attiva di elementi che possano rivelare fatti o attività illecite, tuttavia, una volta che gli sia noto il carattere illecito di un post, un commento o altro contenuto, pubblicati sulla sua piattaforma, deve cancellare tale contenuto o bloccarne l’accesso. Un onere, questo che non ha confini territoriali, ma può essere esteso anche a livello mondiale ricomprendendo tutti i contenuti illeciti di identico tenore o di tenore equivalente a quello noto al gestore della piattaforma, riconducibili ad uno stesso utente.

La questione è stata portata davanti alla Corte Europea dai giudici austriaci, chiamati a decidere su un caso in cui una deputata austriaca aveva richiesto l’emissione di un’ordinanza cautelare nei confronti di un famoso social network, finalizzata ad eliminare la pubblicazione di un commento diffamatorio che era stato condiviso da un utente della piattaforma.

Sostanzialmente, l’utente aveva condiviso sulla propria pagina personale l’articolo di una rivista che parlava delle iniziative del partito della deputata, riportandone anche la fotografia. Questa condivisione aveva permesso, come accade di consueto in circostanze di condivisione di contenuti sui social, che sul profilo dell’utente venisse pubblicato il titolo dell’articolo diffamatorio, una breve sintesi dello stesso e la foto della deputata; a corredo del post condiviso, l’utente aveva poi pubblicato un commento degradante nei confronti della deputata. Contenuti, che trovandosi su una piattaforma social, potevano essere rintracciati e visualizzati da qualsiasi altro utente. La deputata, pertanto, si era rivolta alla piattaforma, chiedendo che venisse rimosso il commento denigratorio, ma senza nulla ottenere. Allora, per far cessare la pubblicazione e/o diffusione di immagini negative che la ritraevano, anche nei casi in cui il messaggio di accompagnamento avesse diffuso affermazioni identiche al commento di cui trattasi e/o dal «contenuto equivalente», aveva adito le vie legali.

Il giudice di primo grado aveva emesso l’ordinanza cautelare richiesta dalla deputata e aveva proceduto a disabilitare l’accesso al contenuto inizialmente pubblicato, ma limitatamente al territorio dell’Austria.

La deputata però voleva di più, chiedeva che l’accesso al contenuto diffamatorio e ai contenuti ad esso identici e analoghi venisse negato a livello mondiale e, dunque, ha promosso ricorso in appello rivolgendosi alla Corte Suprema dell’Austria che, investita della controversia, ha confermato il carattere diffamatorio del commento, rivolgendosi però alla Corte di Giustizia dell’UE per capire se la direttiva sul commercio elettronico ostacoli l’estensione del provvedimento inibitorio a livello mondiale, fino a ricomprendere dichiarazioni testualmente identiche e/o dal contenuto equivalente di cui la piattaforma, di fatto, non era a conoscenza.

Per l’Avvocato Generale, la direttiva sul commercio elettronico non vieta la suddetta estensione, quindi un giudice può ordinare ad una piattaforma di cercare ed eliminare contenuti identici o analoghi a quello illecito a livello mondiale. Secondo il parere dell’Avvocato Generale, infatti, tale approccio consente di garantire un giusto equilibrio tra i diritti fondamentali coinvolti, ossia la protezione della vita privata e dei diritti della personalità, quella della libertà d’impresa, nonché quella della libertà d’espressione e d’informazione. Un tale obbligo non richiede strumenti tecnici sofisticati - sostiene l’Avvocato Generale nelle sue conclusioni - che potrebbero rappresentare un onere straordinario a carico del gestore della piattaforma; peraltro, tenuto conto della facilità di riproduzione delle informazioni nell’ambiente Internet, l’intervento di rimozione in tal senso risulta necessario per assicurare la protezione efficace della vita privata e dei diritti della personalità.

Nell’ambito del provvedimento ingiuntivo, l’host provider può pertanto anche essere costretto a ricercare ed individuare le informazioni non solo identiche, ma anche equivalenti a quella qualificata come illecita. Una tale ricerca deve però essere limitata unicamente alle informazioni diffuse dall’utente che ha divulgato l’informazione di cui trattasi e non da altri. Un giudice che statuisce sulla rimozione di siffatte informazioni equivalenti deve garantire che gli effetti del suo provvedimento ingiuntivo siano chiari, precisi e prevedibili. Nel farlo, egli deve procedere a un bilanciamento tra i diritti fondamentali coinvolti e tener conto del principio di proporzionalità.

Estendere l’obbligo di cercare contenuti diffamatori di tal fatta pubblicati anche da altri utenti, significherebbe, per l’Avvocato Generale, caricare la piattaforma di oneri troppo pesanti, senza contare che l’attuazione di tali soluzioni condurrebbe a una censura, sicché la libertà di espressione e di informazione potrebbe essere sistematicamente limitata. Inoltre, ad avviso dell’Avvocato Generale, poiché la direttiva non disciplina la portata territoriale di un obbligo di rimozione delle informazioni diffuse tramite una piattaforma di social network, essa non osta a che un host provider sia costretto a rimuovere siffatte informazioni a livello mondiale.

Concludendo, l’Avvocato Generale ritiene che la direttiva sul commercio elettronico non impedisca ad un giudice di imporre ad un host provider di cercare e rimuovere informazioni identiche o equivalenti a quella qualificata come illecita qualora esse gli siano state segnalate dall’interessato, da terzi o da altra fonte, in quanto, in circostanze simili, l’obbligo di rimozione non comporta una sorveglianza generale delle informazioni memorizzate. Ai giudici della Corte Europea spetterà adesso decidere se accogliere o meno le conclusioni dell’Avvocato Generale.
 


Annalisa Spedicato

Avvocato esperto in IP, ICT e Privacy