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7 giugno 2023

Cassazione penale, sez. II, 07/06/2023, n. 24492 [Trattamento dei dati personali - Dati giudiziari - Utilizzo ai fini del giudizio di responsabilità dei risultati di attività intercettiva disposta in forza di decreti emessi in violazione degli artt. 55, 384, 352, 244 cod. proc. pen, 13, 15, 117 Cost., 8 CEDU - Utenze carpite dalla polizia giudiziaria con modalità irrituale ed illegale]

Trattamento dei dati personali - Dati giudiziari - Utilizzo ai fini del giudizio di responsabilità dei risultati di attività intercettiva disposta in forza di decreti emessi in violazione degli artt. 55, 384, 352, 244 cod. proc. pen, 13, 15, 117 Cost., 8 CEDU - Utenze sulle quali erano state disposte le intercettazione in forza dei predetti decreti carpite dalla polizia giudiziaria con modalità irrituale ed illegale - Esame di un apparato telefonico cellulare per estrarne, all'insaputa del titolare, il relativo numero telefonico non qualificabile né come perquisizione ex art. 352 cod. proc. pen., dato che la Polizia giudiziaria non è andata alla ricerca del corpo del reato o di cose ad esso pertinenti, né come ispezione di cose, posto che l'utenza non è qualificabile come traccia o altro effetto materiale del reato, come previsto dall'art. 244, comma 1 e 246 cod. proc. pen. - Utilizzo dei dati segnalati sul display di un apparecchio di telefonia mobile che non necessita del decreto di autorizzazione del g.i.p. in quanto tali elementi non sono assimilabili al contenuto di conversazioni o comunicazioni telefoniche, la cui utilizzazione è disciplinata dagli artt. 266 e ss. cod. proc. pen..


SENTENZA

(Presidente: dott. Geppino Rago - Relatore: dott. Ignazio Pardo)

 

sui ricorsi proposti da:

E.A. nato a (...) il 15/06/1994;

P.D. nato a (...) il 28/12/1989;

D.M.L. nato a (...) il 13/08/1976;

DE.MA.AN. nato a (...) il 14/08/1989;

avverso la sentenza del 01/12/2021 della CORTE ASSISE APPELLO di NAPOLI;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere IGNAZIO PARDO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore PAOLA MASTROBERARDINO che ha concluso chiedendo in accoglimento dell'XI motivo del ricorso dell’avv. Perone nell'interesse di D.M.L., annullare senza rinvio la sentenza impugnata con riferimento al trattamento sanzionatorio, con rideterminazione dello stesso attraverso l'eliminazione dell'isolamento diurno nei confronti di tutti gli imputati ex art.587c.p.p.; rigetto nel resto del ricorso; chiede altresì voler dichiarare inammissibili tutti gli altri ricorsi.

uditi i difensori Avv.to Stefano Sorrentino per P. ed E. che illustra i motivi e chiede l'accoglimento dei motivi di ricorso; Avv.to Saverio Senese per P.D. che si riporta e chiede l'annullamento della sentenza. Avv.to Davino Claudio per E. che si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento; Avv.to Dario Vannetiello il quale illustra i motivi e ne chiede l'accoglimento; Avv.to Perone Leopoldo il quale chiede l'accoglimento dei ricorsi.



RITENUTO IN FATTO

1.1 La Corte di Assise di Appello di Napoli, con sentenza in data 1 dicembre 2021, esclusa la contestata recidiva nei confronti di D.M.L., confermava le condanne emesse dal Giudice dell'Udienza Preliminare del Tribunale di Napoli con pronuncia del 19 dicembre 2018 alle pene dell'ergastolo nei confronti di D.M.L. e De.Ma.An. e di anni 30 di reclusione nei riguardi di E.A. e P.D.; il giudice di primo grado e la corte di assise di appello ritenevano responsabili tutti gli imputati, in concorso tra loro, dei reati di omicidio in danno di S.S. e tentato omicidio in danno di A.G., nonché dei reati connessi a tale episodio delittuoso avvenuto il 23 dicembre 2016 in Napoli (detenzione e porto abusivo di più armi da sparo, incendio di un furgone e ricettazione dello stesso mezzo) nonché del delitto di associazione mafiosa per avere fatto parte del clan De Micco, operante in Ponticelli di Napoli, con ruolo direttivo per D.M.L..

1.2 Avverso detta sentenza proponevano ricorso per cassazione tutti gli imputati; De.Ma.An., con ricorso degli avvocati Leopoldo Perone e Stefano Sorrentino, chiedeva l'annullamento della sentenza ex art. 606 lett. b), c) ed e) cod. proc. pen in relazione agli aumenti a titolo di continuazione stabiliti per i fatti concorrenti con il più grave episodio di omicidio, stante l'irragionevolezza degli stessi aumenti come applicati dal giudice di primo grado e poi confermati in appello. In particolare, con una prima doglianza si lamentava che gli aumenti di pena erano stati fissati nella misura complessiva di anni 7 e mesi 10 senza operare la riduzione per il rito abbreviato e la corte di appello aveva omesso di correggere l'errore del giudice di primo grado.

Con altra doglianza si lamentava come l'aumento di pena in concreto irrogato per il reato associativo, pari ad anni 4 di reclusione, doveva ritenersi sproporzionato. Infine la corte di appello non aveva preso atto dell'errore di calcolo contenuto a pag. 850 della sentenza di primo grado in cui l'aumento di pena per i delitti di cui al capo 6 (detenzione e porto abusivo di armi) era stato determinato in anno 1 e mesi 6 di reclusione benché stabilito in mesi 6 di detenzione e mesi 9 per il porto e cioè in complessivi anni 1 e mesi 3.

1.3 L'avvocato Stefano Sorrentino, difensore di P.D., chiedeva con distinti motivi qui riassunti ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen:

- annullamento della sentenza ex art. 606 lett. b), c) ed e) cod.proc.pen in relazione ai delitti contestati ai capi 1, 5, 6, 7 e 8 dell'imputazione avendo la corte utilizzato ai fini del giudizio di responsabilità i risultati di attività intercettiva disposta in forza di due decreti, n. 3835/16 e n. 4108/16, disposti in violazione degli artt. 55, 384, 352, 244 cod. proc. pen, 13, 15, 117 Cost., 8 CEDU e difetto di motivazione della corte di appello nella parte in cui era stata esclusa l'illegalità dell'attività di intercettazione; al proposito si lamentava che le utenze sulle quali erano state disposte le intercettazione in forza dei suddetti decreti erano state carpite dalla polizia giudiziaria con modalità irrituale ed illegale. Ed invero, in occasione del controllo effettuato nei riguardi di De.Ma. ed altri soggetti l'11 novembre 2016, la P.G. ricavava dalla consultazione del telefono cellulare dello stesso i numeri telefonici poi sottoposti ad intercettazione senza però che detta attività, consistita in una perquisizione o comunque ispezione, fosse stata espletata nel rispetto delle garanzie previste dalla Costituzione e dal codice di procedura penale. Analogamente, il secondo decreto, aveva avuto ad oggetto l'intercettazione di un'utenza riferibile a De.Ma.An. identificata dalla polizia giudiziaria in maniera del tutto riservata con violazione di analoghi principi e delle norme stabilite in tema di attività ispettiva o di perquisizione, subordinate all'emissione di un decreto motivato dal pubblico ministero nel caso di specie assente. Aveva errato il primo giudice nel ritenere applicabili al caso di specie i principi stabiliti dalla sentenza Lanzetta della Corte di cassazione e l'attività compiuta, consistita nell'estrapolazione del numero di utenza cellulare, comportando una intrusione nella sfera privata anche alla luce di quanto disposto dall'art. 8 CIEDU, doveva ritenersi garantita dal principio di legalità e quindi subordinata all'emissione di un decreto da parte del PM altrimenti risultando posta in essere in violazione di norme costituzionali a presidio di diritti fondamentali. Aveva ancora errato la corte di appello nel ritenere applicabile l'art. 348 cod. proc. pen. che non può legittimare un'attività illegale. L'illegittimità del procedimento acquisitivo delle utenze inficiava i successivi decreti autorizzativi delle intercettazioni disposti sull'utenza del De.Ma. ed utilizzate per affermare la responsabilità di D.M.; né poteva ritenersi che la disciplina dettata dall'art. 191 cod. proc. pen limitasse tassativamente l'inutilizzabilità alle sole prove acquisite in violazione delle previsioni del codice di procedura penale poiché, la prova ottenuta attraverso metodi in violazione dei diritti dell'individuo, ha natura essenzialmente illecita. L'intera sequenza che portava all'elemento probatorio doveva considerarsi invalida e l'argomentazione della sentenza secondo cui l'attività non poteva qualificarsi come perquisizione bensì come attività urgente ed innominata ex art. 348 cod. proc. pen., doveva ritenersi manifestamente irragionevole posto che l'attività non era consistita nell'assicurazione di una fonte di prova bensì nell'estrapolazione di dati che avrebbero consentito la prosecuzione del monitoraggio captativo;

- annullamento della sentenza ex art. 606 lett. b), c) ed e) cod. proc. pen per nullità assoluta della attività ispettiva del cellulare in uso a De.Ma.An. in data 30 novembre 2016 finalizzata all'acquisizione del numero telefonico per violazione degli artt. 348, 356, 370, 364, 244, 178 lett c), 179 cod. proc. pen. e conseguente inutilizzabilità ex artt. 266, 267 cod. proc. pen. delle intercettazioni disposte; il giudice di appello aveva respinto l'eccezione di inutilizzabilità richiamando il giudicato cautelare della sentenza n. 20247/2018 ma tale intervento non aveva preso in considerazione la seconda questione di inutilizzabilità sia perché formulata successivamente sia perché avente ad oggetto differenti profili; al proposito si sottolineava che al momento della acquisizione dei dati da parte della polizia giudiziaria il PM aveva già assunto la direzione delle indagini e poiché De.Ma. era soggetto già indagato del delitto di cui all'art. 416bis cod. pen. era obbligo della P.G. di avvertirlo della facoltà di farsi assistere da difensore, fatto invece non avvenuto;

- violazione dell'art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen in relazione ai capi 5,6,7,8 per carenza del dolo di concorso nel reato e per violazione della regola dell'al di là di ogni ragionevole dubbio; in materia di concorso di persone del reato per aversi concorso punibile occorre un comportamento materiale esteriore che costituisca contributo alla realizzazione dell'evento mentre, nel caso in esame, la minima attività del P..non integrava il suddetto elemento posto che, lo stesso, non aveva partecipato all'agguato, non aveva concorso nella consegna del cellulare al "filatore" ed i contatti successivi al fatto erano intercorsi con Pi.Ni., assolto dal delitto di concorso in omicidio; peraltro, la corte aveva violato il principio del ragionevole dubbio ricostruendo la condotta del P. sulla base di una apodittica congettura in forza della quale era stato coinvolto nei fatti, non potendo sostenersi che il cellulare oggetto di sms tra D.M. e P. fosse lo stesso poi consegnato ad E.A. e da questi al soggetto denominato il "filatore" incaricato di individuare il Solla; infine, anche la presenza del ricorrente nella zona dove veniva bruciato il furgone utilizzato per l'omicidio, era affermata illogicamente anche in considerazione dell'assoluzione del coimputato Pizzo.

L'avv.to Senese nell'interesse di P.D. deduceva con motivi nuovi:

-violazione dell'articolo 606 comma primo lettere b) c) ed e) codice procedura penale per violazione degli articoli 352, 357 e 244 codice procedura penale, 13, 15 Costituzione, 8 CEDU con riferimento ai decreti di intercettazione 3835 del 2016 e 4108 del 2016; violazione delle norme procedurali relative all'acquisizione e documentazione dell'attività di polizia giudiziaria in merito alla acquisizione riservata delle utenze telefoniche, con i relativi nominativi, sul telefono cellulare effettuata nel corso di un controllo sul territorio e nel corso delle sommarie informazioni testimoniali rese presso gli uffici di polizia giudiziaria; al proposito si eccepiva l'inutilizzabilità patologica dei risultati delle intercettazioni a seguito della illegittima acquisizione dei numeri telefonici da sottoporre ad intercettazione. La modalità operativa di individuazione dei contatti del telefono ispezionato o perquisito e delle utenze successivamente sottoposte ad intercettazione rendeva inutilizzabili gli esiti della attività di intercettazione; inoltre, affetti da inutilizzabilità ex artt. 63 comma 2 ed art 210 c.p.p., erano anche i verbali di s.i.t. rese in data 10.11.16 da C., P., De.Ma. e R. posto che gli stessi erano già indagati e/o sottoposti ad indagini per la partecipazione al clan D.M., motivo per il quale la loro escussione a sommarie informazioni testimoniali imponeva alla P.G. di sentirli con le garanzie dell'art. 64 cod. proc. pen. la cui omissione determinava la inutilizzabilità delle loro dichiarazioni ex art. 63 comma 2 c.p.p. in riferimento all'art. 210 c.p.p.; l'attività svolta dalla P.G. in maniera riservata quanto all'accertamento dei contatti e dei numeri di utenze telefoniche nella rubrica del dispositivo mobile in uso a C. Lino e De.Ma.An., si rilevava innegabilmente illegittima ed abusiva proprio perché finalizzata all'ispezione e/o perquisizione nella rubrica telefonica dei contatti ivi registrati (documento informatico) per poi sottoporre tali utenze alla attività di intercettazione; la mancata documentazione delle modalità e delle forme utilizzate per recuperare dai device in oggetto i dati relativi alle utenze telefoniche aveva di fatto impedito alle parti processuali -difese ed organo giudicante - la possibilità di verificare la genuinità degli atti compiuti e la conformità di queste alla legalità processuale. Era stata compiuta dalla P.G. una attività di data searching sui cellulari di C.L. e di De.Ma.An. che doveva essere inquadrata nelle fattispecie di perquisizione e/o ispezione informatica e per la quale era necessaria la documentazione della corrispondenza del dato informatico ricavato all'originale attraverso una copia del supporto di memoria; l'investigazione su sistemi digitali doveva avvenire "adottando misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l'alterazione" come anche affermato dalle Sezioni Unite, Andreucci, n. 30963 del 2017 nella parte in cui stabilisce che le disposizioni introdotte nei codici penale e di procedura:" fanno riferimento a dati, informazioni e programmi nella loro essenza fisica e senza riferimento ai contenuti, prevedendo la possibilità di ricercarli mediante perquisizione del sistema informatico o telematico che li potrebbe contenere. Altro elemento comune che si rinviene nelle citate disposizioni è il riferimento alla possibilità di estrazione dì copie dei dati secondo procedure, peraltro non tipizzate (cfr. Sez. 3, n. 37644 del 28/5/2015, R., Rv. 265180), che ne assicurino la conformità all'originale e la immodificabilità. Invero, come emerge con chiarezza dal complesso delle disposizioni codicistiche dianzi richiamate, l’estrazione della copia con modalità tali da assicurarne la conformità all'originale e la sua immodificabilità è prevista allo scopo di preservare il dato acquisito isolandolo dal sistema che lo contiene, impedendone la successiva elaborazione, trasformazione o eliminazione";

-violazione dell'articolo 606 comma primo lettera b) con riferimento all'articolo 192 codice procedura penale in relazione agli articoli 110 codice penale e 546 codice procedura penale; totale omessa motivazione con riferimento al contributo causale teoricamente offerto dal ricorrente P.D. nella realizzazione dell'omicidio in danno di S.S. e del tentativo di omicidio in danno di A.G.; in particolare si sottolineava sussistere prova della presenza del P. in un luogo diverso da quello di consumazione dei fatti ed, inoltre, mancava qualsiasi indicazione del contributo concorsuale dello stesso al fatto ed in rapporto di causalità efficiente con le condotte dei concorrenti; i giudici del fatto erano incorsi nell'errore di ritenere che la prova della condotta di partecipazione all'associazione integrasse la prova del concorso nel reato di omicidio e tentato omicidio, nonché nei reati satellite, in violazione del principio in forza del quale la sola appartenenza ad un'associazione di stampo camorristico non assume "valenza dimostrativa univoca del contributo di ciascuno dei componenti alla realizzazione del reato-fine";

- violazione dell'articolo 606 comma primo lettere c) ed e) con riferimento all'articolo 192 codice procedura penale per totale omessa motivazione con riferimento alla ambiguità interpretativa degli sms ancorché intercettati illegittimamente, posti a fondamento della decisione, motivazione illogica e congetturale sul punto; la corte di merito aveva ritenuto di attribuire un significato univoco agli sms che erano stati registrati dai telefoni ritenuti in possesso degli imputati, sebbene si trattasse di elementi di provai indiziaria dal contenuto equivoco, incerto e discordante con gli ulteriori elementi indiziari emergenti dagli atti processuali; si lamentava che un unico sms, il cui contenuto assumeva un valore probatorio neutro, intercorrendo tra due soggetti appartenenti al medesimo sodalizio criminoso, e con il quale il P. comunicava al D.M. di essere in attesa di E.A., altro affiliato, che lo doveva andare a prendere a San Giorgio a Cremano, era stato utilizzato dai giudici della corte territoriale a sostegno della affermazione di responsabilità del P., a titolo di concorso, nel reato di omicidio, in violazione dei principi in tema di prova indiziaria e di concorso di persone nel reato; ripercorso il contenuto degli sms posti a fondamento della ricostruzione dei fatti e della condanna a titolo di concorso, si deduceva la violazione delle regole in tema di valutazione della prova indiziaria sottolineando come l'esistenza di dubbi ragionevoli sulla plausibilità e razionalità della ricostruzione operata dai giudici del fatto, e riguardanti i presunti partecipi dell'azione, si traducesse in una ipotesi di apparenza o illogicità manifesta della motivazione.

1.4 Gli avvocati Leopoldo Perone e Claudio Davino nell'interesse di E.A. chiedevano con motivi qui riassunti ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen:

- annullamento della sentenza ex art. 606 lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in relazione ai delitti contestati ai capi 1, 5, 6, 7, 8 avendo la corte utilizzato i risultati di attività intercettiva (decreti n. 3835/16 e 4108/16) disposta in violazione degli artt. 55, 384, 352, 244 cod. proc. pen., 13,15,117 Cost., 8 CEDU; difetto di motivazione con riguardo alla questione per avere la corte escluso l'illegalità dell'intercettazione sulla base di plurime argomentazioni viziate; in particolare, gli estremi delle utenze poi sottoposte ad intercettazione, erano stati carpiti dalla PG con modalità irrituali ed illegali a seguito di attività ispettiva o di perquisizione senza il rispetto delle garanzie previste dalla Costituzione e dal codice di rito (primo decreto); anche il secondo decreto atteneva ad un'utenza individuata in seguito ad un controllo a carico di De.Ma. con funzione ispettiva o di perquisizione di cui mancava qualsiasi documentazione e difettava la possibilità di verificare la genuinità e legalità degli atti compiuti; la Corte di cassazione nel procedimento cautelare non aveva valutato l'impossibilità di conoscere l'autore materiale dell'attività di rilevamento di numeri, non si applicavano i principi della sentenza Larizetta (Cass. 3435/2003), l'estrapolazione dei numeri di utenza comportava una attività intrusiva della sfera privata ed in ogni caso per costante giurisprudenza (Cass. 1125/2021) il giudicato cautelare in punto di inutilizzabilità degli esiti captativi non produce alcun effetto vincolante sulle determinazioni del giudice del procedimento principale; in ogni caso in sede di appello si erano esposti termini nuovi e diversi rispetto a quelli oggetto del procedimento cautelare rispetto ai quali la motivazione della corte di appello, secondo cui l'attività di PG doveva qualificarsi ai sensi dell’art. 348 cod. proc. pen., doveva ritenersi irragionevole;

- violazione degli artt. 606 lett. b) ed e), 546 cod. proc. pen. in relazione ai principi in tema di concorso di persone nel reato essendo stata ritenuta la penale responsabilità del ricorrente nonostante l'assenza di elementi a carico dello stesso con riferimento alle fasi ideativa, decisionale ed esecutiva del delitto; l'errata applicazione delle norme sul concorso derivava dalla mancata individuazione di un contributo essenziale al verificarsi dell'evento prestato da E. il quale non aveva individuato il c.d. filatore né conosceva lo stesso, essendosi al più limitato alla mera consegna di un telefono; in ogni caso mancava la prova materiale che il telefono adoperato nella fase esecutiva fosse proprio quello consegnato dall'imputato ed inoltre, dal contenuto dei messaggi, non si ricavava un intervento dell'E. né si conoscevano i motivi per cui il capo D.M.L. avesse tale corrispondenza telefonica; mancava qualsiasi contatto tra E. e il c.d. filatore idoneo a confermare la tesi accusatoria; dalle dichiarazioni del collaboratore Ca. emergeva un ruolo dell'E. nel gruppo criminale indipendente, non stabilmente partecipe e dedito esclusivamente al traffico di stupefacente; il ricorrente era stato sempre escluso dalle altre azioni dimostrative e delittuose del clan che il ricorso ricostruiva riportando le dichiarazioni di Ca. ed il contenuto dei messaggi dai quali risultava che E. non aveva mai partecipato ad azioni di fuoco organizzate dal gruppo criminoso; la presenza di tutti i correi all'interno dell'abitazione ricavata dall'aggancio di un unico ripetitore di via Pi. nulla di decisivo provava per E. atteso che la sua abitazione ricade a seicento metri dal ripetitore nello stesso quartiere Ponticelli; nelle fasi esecutive dell'omicidio non vi era alcun intervento dell'E. e la presenza dello stesso nel luogo di incendio del furgone non poteva ricavarsi dai dati di aggancio della cella mancando altresì il messaggio o la comunicazione sulla base della quale tale posizionamento era stato affermato; infine, la sola appartenenza all'associazione non poteva ritenersi elemento idoneo a fornire un apporto causale alla commissione del fatto;

- violazione degli artt. 606 lett. c) ed e) cod. proc. pen., omessa ed illogica motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della responsabilità in relazione al reato associativo ed alla aggravante di cui all’art. 416 bis comma 4 cod. pen.; la responsabilità ex art. 416bis cod. pen. era stata illogicamente ritenuta sulla base di due dichiarazioni accusatorie generiche e contraddittorie nonché in forza della dichiarazione del Ca. che aveva escluso l'inserimento stabile di E. nel clan; mancava poi qualsiasi elemento di riscontro; riportate le dichiarazioni del Ca. si sottolineava il ruolo indipendente svolto da E. nel commercio di droghe leggere e l'assenza di stabile inserimento;

- violazione dell'art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen. con riferimento alla asserita sussistenza della aggravante della premeditazione; in particolare l'eliminazione del Solla seguiva la notte tra il 21 e il 22 dicembre ed il lasso temporale che intercorreva tra la presunta predisposizione dei mezzi e l'azione era praticamente inesistente;

- annullamento della sentenza per difetto di motivazione con riferimento al diniego delle attenuanti generiche.

1.5 Con un primo ricorso dell’avv.to Perone nell'interesse di D.M.L. si chiedeva:

- annullamento della sentenza ex art. 606 lett. b), c) ed e) cod. proc pen. in relazione ai delitti contestati ai capi 1,5,6,7,8 avendo la corte utilizzato i risultati di attività intercettiva (decreti n. 3835/16 e 4108/16) disposta in violazione degli artt. 55, 384, 352, 244 cod. proc. pen., 13,15,117 Cost., 8 CEDU; difetto di motivazione con riguardo a tale questione per avere la corte escluso l'illegalità dell'intercettazione sulla base di plurime argomentazioni viziate; in particolare gli estremi delle utenze erano stati carpiti dalla P.G. con modalità irrituali ed illegali a seguito di attività ispettiva o di perquisizione senza il rispetto delle garanzie previste dalla Costituzione e dal codice di rito (primo decreto); anche il secondo decreto atteneva ad un'utenza individuata in seguito ad un controllo a carico di De.Ma. con funzione ispettiva o di perquisizione di cui mancava qualsiasi documentazione e difettava la possibilità di verificare la genuinità e legalità degli atti compiuti; la Corte di cassazione, nel procedimento, cautelare, non aveva, valutato l'impossibilità di conoscere l'autore materiale dell'attività di rilevamento di numeri, non si applicavano i principi della sentenza Lanzetta (Cass. 3435/2003), l'estrapolazione dei numeri di utenza comportava una attività intrusiva della sfera privata priva di autorizzazione dell'autorità giudiziaria ed, in ogni caso, per costante giurisprudenza (Cass. 1125/2021), il giudicato cautelare in punto di inutilizzabilità degli esiti captativi non produceva alcun effetto vincolante sulle determinazioni del giudice del procedimento principale; in ogni caso in sede di appello si erano esposti termini nuovi e diversi rispetto a quelli oggetto del procedimento cautelare rispetto ai quali la motivazione della corte di appello, secondo cui l'attività di PG doveva qualificarsi ai sensi dell'art. 348 cod. proc. pen., era da ritenersi irragionevole; né poteva ritenersi che la disciplina dettata dall'art. 191 cod. proc. pen limitasse tassativamente l'inutilizzabilità alle sole prove acquisite in violazione delle previsioni del codice di procedura penale, ed anzi, la prova ottenuta attraverso metodi in violazione dei diritti dell'individuo, ha naturai essenzialmente illecita; l'ispezione del cellulare nella disponibilità del De.Ma. non era diretta ad assicurare le fonti di prova bensì finalizzata ad estrapolare dati che avrebbero consentito di proseguire il monitoraggio captativo interrottosi a seguito del disfacimento da parte dei componenti del gruppo delle schede specificamente dedicate per le comunicazioni; la sentenza impugnata doveva pertanto essere annullata per avere fondato il giudizio di responsabilità su prove acquisite illegalmente;

- annullamento della sentenza ex art. 606 lett. b), c:) ed e) cod. proc. pen. per violazione dell’art. 649 cod. proc. pen. in relazione al fatto associativo contestato al capo 1) avendo errato la corte di assise di appello nel ritenere che la sentenza di assoluzione emessa dal GIP di Napoli nel giugno 2015 nel separato procedimento avesse interrotto la permanenza con conseguente esclusione del ne bis in idem per le condotte poste in essere da D.M. successive al giugno 2015 e difetto di motivazione sul punto; posto, infatti, che la sentenza di secondo grado in data 25 gennaio 2017 emessa nel separato procedimento aveva affermato la responsabilità dell’imputato (pronuncia poi annullata con rinvio dalla corte di cassazione), non poteva ritenersi che la pronuncia di assoluzione di primo grado avesse interrotto la permanenza; l'interruzione della permanenza in caso di contestazione aperta alla data della sentenza di primo grado presuppone necessariamente un reato effettivamente commesso e ciò non si verifica nel caso di assoluzione sicché avendo l'appello effetto pienamente devolutivo ed oggetto un nuovo giudizio sull'impianto accusatorio sarà la condanna pronunciata all'esito dell'appello a produrre l'interruzione giudiziale della permanenza; conseguentemente la permanenza doveva ritenersi cessata alla data del 2017 di emissione della sentenza di appello di condanna così che doveva farsi applicazione del divieto di ne bis in idem in quanto tale giudizio aveva ad oggetto anche i fatti presi in considerazione nel presente procedimento;

- annullamento della sentenza ex art. 606 b), c) ed e) cod. proc. pen. quanto alla ritenuta responsabilità del D.M. per il fatto di omicidio dii cui al capo 5) e difetto di motivazione sul punto; si deduceva il travisamento dei dati probatori costituiti dal contenuto degli sms, l'assenza di riscontri alla dichiarazione del collaboratore Ca. circa la causale dell’omicidio, peraltro totalmente generica poiché lo stesso, aveva genericamente riferito di attriti esistenti senza nulla specificare in ordine al fatto; dalla lettura dei messaggi scambiati il 22 e 23 dicembre si rilevava che gli obiettivi del gruppo erano multipli e riguardanti soggetti appartenenti alla fazione dei De.Lu.-Bo. cosi che la riferibilità dell'omicidio al gruppo D.M. era stata affermata in violazione dei principi in tema di valutazione degli indizi, anche tenuto conto del fatto che il soprannome della vittima indicato dal Ca. non coincideva con quello indicato negli sms; manifestamente illogica doveva ritenersi poi l'attribuzione all’imputato dell'utenza 3511796459, in primo perché la corte aveva escluso il riconoscimento vocale effettuato dalla PG e, poi, in quanto le ulteriori due circostanze relative alla presenza della polizia sotto l'abitazione del ricorrente ed al recupero di una autovettura da parte di Ca.Ro., erano state affermate in assenza di qualsiasi valutazione delle censure mosse dalla difesa circa la conducenza degli elementi probatori; in particolare si era dedotto come non vi fosse traccia precisa della attività compiuta il 10 dicembre 2016 e come il contenuto del messaggio sms scambiato da D.M. non ne permetteva l'attribuzione certa allo stesso; sul punto la corte si era adagiata sulle conclusioni dell'informativa redatta un mese dopo i fatti; anche in relazione alla rilevanza delle dichiarazioni del Ca. per l'individuazione di quella utenza si era incorsi nel travisamento delle risultanze probatorie posto che non vi era traccia della consegna dell'auto nei messaggi scambiati il 4 dicembre e lo stesso Ca. aveva collocato a gennaio-febbraio, quindi ben dopo i fatti, il mandato diretto a recuperare l'auto; in conclusione la riferibilità dell’omicidio Solla al clan D.M. e la partecipazione del ricorrente ai fatti era fondata su argomentazioni apodittiche e meramente apparenti;

- violazione dell'art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen. con riferimento alla asserita sussistenza della aggravante della premeditazione; i messaggi scambiati nei giorni precedenti avevano ad oggetto obiettivi multipli, non vi era certezza circa la causale dell'omicidio così che non era stata provata a monte una volontà omicidiaria avente ad oggetto il solo Solla che potesse giustificare il riconoscimento dell'aggravante;

- annullamento della sentenza ex art. 606 lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in relazione al tentato omicidio di A.G. ed alla affermazione di responsabilità di D.M. sulla base di criteri puramente oggettivi; la corte riteneva che il fatto storico del duplice attentato fosse riconducibile al paradigma dell'aberratio ma, in forma contraddittoria, la sentenza impugnata si era espressa poi in riferimento al tentato omicidio benché tale seconda fattispecie richiede uno schema a base tipicamente dolosa incompatibile con il dolo misto a colpa o a responsabilità oggettiva dell'aberra tio ictus; una volta elevata l’aberratio a meccanismo di imputazione del fatto in danno di Ardu, non poteva essere applicato il meccanismo degli aumenti per il reato continuato bensì quello previsto dall’art. 82 comma 2 cod. pen. sicché, nella determinazione della pena dell'ergastolo, doveva ritenersi assorbita la sanzione prevista da detta norma, dovendosi poi calcolare ai fini dell'isolamento diurno il solo aumento di pena in continuazione per gli altri fatti delittuosi; in ogni caso per il tentato omicidio di Ardu non poteva riconoscersi l'aggravante della premeditazione trattandosi di vittima occasionale dell'azione di fuoco;

- annullamento della sentenza ex art. 606 lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. p.er avere la corte di appello qualificato come armato il sodalizio di cui al capo n. 1) e ritenuto il D.M. responsabile del fatto associativo e difetto di motivazione sul punto; pur avendo premesso di non tenere conto delle dichiarazioni dei collaboratori riferite a periodi antecedenti al giugno 2015, contraddittoriamente la sentenza impugnata aveva valorizzato le dichiarazioni di St. ed E.; non era stata esposta l'attendibilità intrinseca del Ca., soggetto assuntore di psicofarmaci, il quale non aveva indicato D.M.L. come soggetto componente del clan nell’interrogatorio del 5 giugno 2017; si contestava poi la qualificazione del sodalizio come armato affermata senza tenere conto della data di contestazione dei fatti e delle dichiarazioni del Ca. intervenute solo nel 2017;

- annullamento della sentenza ex art. 606 lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in relazione al delitto contestato al capo 1) quanto alla ritenuta funzione dirigenziale svolta dal ricorrente e difetto di motivazione in ordine all'attribuzione del ruolo di vertice; con i motivi di appello si erano contestate le dichiarazioni del teste Mi.Ci. mentre la corte di appello aveva inferito il ruolo di vertice sulla base dell'omicidio Solla con un processo illogico;

- annullamento della sentenza ex art. 606 lett. b), c) ed e) cod.proc pen. in relazione ai delitti di cui ai capi 6,7,8 quanto alla responsabilità per i reati di porto e detenzione di armi utilizzate nonché per la ricettazione e l'incendio del furgone affermata sulla base di criteri esclusivamente oggettivi; il concorso dell'Imputato in tali fatti era stato affermato in violazione dei principi di cui all'art. 110 cod. pen. posto che la mera consapevolezza non integrava un vero contributo alla realizzazione del fatto; ciò valeva anche per il concorso nella ricettazione che è reato istantaneo che si consuma al momento della ricezione del bene;

- annullamento della sentenza ex art. 606 lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in relazione alla circostanza aggravante di cui all'art. 416 bis.1 ritenuta sia sotto il profilo del metodo che in relazione a quello dell'agevolazione; al proposito si deduceva che il metodo mafioso non poteva ravvisarsi sulla base delle sole connotazioni dell'azione mentre l'agevolazione non era fondata su elementi concreti bensì sulle dichiarazioni del collaboratore Ca. rimaste prive di riscontri;

- annullamento della sentenza ex art. 606 lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche; l'affermazione del giudice di secondo grado doveva ritenersi motivazione di mero stile;

- annullamento della sentenza ex art. 606 lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli aumenti a titolo di continuazione stabiliti per i reati concorrenti con l'omicidio; gli aumenti di pena erano stati fissati nella misura complessiva di anni 7 e mesi 10 senza operare la riduzione per il rito abbreviato e la corte di appello aveva omesso di correggere l'errore del giudice di primo grado. Con altra doglianza si lamentava come l'aumento di pena in concreto irrogato per il reato associativo pari ad anni 4 di reclusione doveva ritenersi sproporzionato. Infine la corte di appello non aveva preso atto dell'errore di calcolo contenuto a pag. 850 della sentenza di primo grado in cui l'aumento di pena per i delitti di cui al capo 6 (detenzione e porto abusivo di armi) era stato determinato in anno 1 e mesi 6 di reclusione benché stabilito in mesi 6 di detenzione e mesi 9 per il porto e cioè, in complessivi anni 1 e mesi 3.

1.6 Con un secondo ricorso dell'avv.to Vannetiello nell'interesse di D.M.L. si deduceva con distinti motivi qui riassunti ex art 173 disp. att. cod. proc. pen.:

- nullità ex art. 606 lett. b) c) ed e) cod. proc. pen in relazione agli artt. 416bis cod. pen e 649 cod. proc. pen. posto che nel presente procedimento l'imputazione di cui all'art. 416bis cod. pen. era stata elevata dal giugno del 2015 avuto riguardo alla sentenza di assoluzione del GUP presso il Tribunale di Napoli per il medesimo fatto anche diversamente circostanziato emessa in data 11 giugno 2015; tale pronuncia escludeva l'appartenenza del D.M. al clan cosi che sussisteva conflitto con l'affermazione di responsabilità pronunciata nel presente procedimento in violazione del principio del divieto di bis in idem come stabilito dalla sentenza 200/2016 della Corte Costituzionale; in ogni caso, nell'ipotesi di riforma della sentenza assolutoria con condanna in appello, come avvenuto a seguito dell'impugnazione della sentenza del GUP di Napoli già citata, la permanenza doveva ritenersi cessata alla data della pronuncia di condanna del 25/01/2017 con conseguente preclusione del giudicato per i fatti avvenuti nel 2016 presi in considerazione nell'odierno procedimento; i giudici di merito avevano glissato le argomentazioni difensive volte a dimostrare la sovrapponibilità della due imputazioni e, quanto agli elementi dichiarativi provenienti dai collaboratori, si evidenziava che lo St. aveva riferito di condotte necessariamente antecedenti al 2015, così come Ca. e Miglio, che comunque non avevano offerto elementi circa il ruolo direttivo del ricorrente; né idonee potevano ritenersi le risultanze delle intercettazioni pertinenti al solo omicidio Solla; ancora si deduceva che la violazione dell'art. 649 cod. proc. pen. emergeva dalla utilizzazione nei due procedimenti distinti delle medesime fonti di prova, con la conseguenza del possibile conflitto di giudicati; Ca. Rocco, principale collaboratore, scagionava da qualsiasi attività direttiva D.M.L. ed anche il Mi. aveva riferito circostanze generiche così che mancava l'individuazione di una stabile condotta di tipo verticistico non ricavabile dalla qualità di organizzatore in un unico episodio di omicidio; si sottolineava ancora che in relazione ad altri episodi di omicidio gli stessi collaboratori avevano escluso il coinvolgimento di D.M.L. mentre le intercettazioni nulla contenevano circa il periodo compreso tra febbraio 2016 e novembre 2016; doveva pertanto ritenersi che era rimasto indimostrato il passaggio di consegne dai fratelli detenuti D.M. al fratello libero D.M.L.; peraltro i giudici di merito avevano mancato di accertare la credibilità dei collaboratori Ca. e Mi.;

- nullità ex art. 606 lett. b) c) ed e) cod. proc. pen. per violazione degli artt. 266, 267, 271, 357 cod. proc. pen. e art. 8 CEDU; premesso che veniva prospettato un profilo diverso e completamente nuovo rispetto a quello già devoluto al tribunale del riesame ed alla Corte di cassazione in fase cautelare, si deduceva la inutilizzabilità patologica delle attività di intercettazione svolte con i decreti autorizzativi nn. 3835, 4108, 4133, 4144 del 2016; difatti alla base di tali decreti vi era stata un'attività illegittima inerente le modalità di acquisizione dei numeri telefonici da sottoporre ad intercettazione, derivante dalle operazione di polizia giudiziaria sui telefoni cellulari di C.L. e De.Ma.An. riguardanti il numero di utenza del De.Ma. nonché ulteriori utenze ricavate dall'esame del cellulare sottoposte poi ad intercettazione; la modalità operativa di individuazione dei contatti del telefono rendeva inutilizzabili gli esiti delle attività di intercettazione e la motivazione sul punto doveva ritenersi apparente; difatti, se i soggetti convocati presso i locali della P.G. non dovevano ritenersi raggiunti da alcun indizio di reato, l'acquisizione delle utenze doveva ritenersi del tutto arbitraria, illegittima ed abusiva; quanto alla motivazione svolta dalla Corte di cassazione nella sentenza 20247/2018, nella stessa si era dato atto dell'assenza di obbligo di autorizzazione quanto all'individuazione del numero di utenza telefonica dell'apparecchio esaminato ma, nel caso di specie, l'accertamento aveva riguardato proprio l'individuazione dei contatti intrattenuti dalle utenze ispezionate così che, indirettamente, la pronuncia di legittimità rafforzava la tesi difensiva; inoltre, ai sensi di Cass. 2817/2008 la inutilizzabilità doveva ritenersi colpire sia il contenuto delle intercettazioni che ogni altro dato desumibile dalla prova illegittimamente acquisita ed, infatti, nel caso di specie, si era violata la disposizione dell'art. 267 cod. proc. pen. secondo cui le intercettazioni possono essere disposte solo quando vi siano gravi indizi di reato la cui sussistenza era smentita dalla stessa informativa di polizia; pertanto, trattandosi di illegittimità sostanziale, il risultato doveva ritenersi non utilizzabile anche ai fini dell'accertamento della prova perché eseguito fuori dai casi consentiti dalla legge; errata doveva anche ritenersi l'individuazione delle utenze riferibili a D.M., effettuata sulla base di elementi privi di univocità sia con riferimento alla circostanza del passaggio in auto della polizia nei pressi dell'abitazione dello stesso che con riguardo al riscontro delle dichiarazioni del Ca. aventi ad oggetto il momento in cui D.M. l'avrebbe contrattato da una delle utenze in questione; pertanto, sussistendo dubbio circa la riferibilità a D.M. degli sms inviati da quella utenza, non poteva ritenersi sussistente prova al di là di ogni ragionevole dubbio in ordine al delitto di concorso in omicidio;

1.7 Con un ulteriore ricorso sempre nell'interesse del D.M. l'avv.to Vannetiello deduceva:

- ad integrazione del secondo motivo che la motivazione doveva ritenersi apodittica circa i criteri di attribuzione dell'utenza, il contenuto di un messaggio che doveva ritenersi travisato e l'attribuzione degli agguati in danno di Mi. e Ma. per i quali il ricorrente non era mai stato imputato;

- nullità ex art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen. quanto alla ritenuta sussistenza del delitto tentato nei confronti di A. mancando sia il requisito dell'idoneità degli atti che della univoca direzione così che tale fatto andava riqualificato nei termini delle lesioni personali aggravate; in ogni caso mancava la motivazione in ordine all'elemento psicologico del D.M. non emergendo alcun elemento dal quale desumere la consapevolezza e la volontarietà dell'azione di colpire un soggetto diverso da Solla; dalla motivazione non emergeva un quadro probatorio idoneo a configurare il concorso del ricorrente nell'azione criminosa ai danni di A. sia in termini materiali che morali;

- nullità ex art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen. quanto all'aggravante ex art. 577 n. 3 cod. pen.; difatti l'aggravante della premeditazione era stata affermata cumulativamente per tutti gli imputati con una valutazione generica mentre l'arco temporale individuato dal giudice di appello non integrava quel lasso di tempo apprezzabile necessario;.

- nullità ex art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione al concorso in detenzione e porto abusivo di armi non essendovi elementi sulla base dei quali ritenere che D.M. avesse ricettato prima e detenuto poi l'arma; sarebbe stato necessario motivare in ordine all'esistenza di elementi dai quali ricavare che il D.M. fosse consapevole che l'omicidio sarebbe stato commesso con un'arma provento di furto così che in ogni caso la prova logica non poteva essere utilizzata con riferimento al delitto di ricettazione;

- violazione di legge in relazione all'affermazione di responsabilità per il delitto di cui all’art. 424 cod. pen. quanto al concorso nell'Incendio del furgone posto che l'utenza attribuita al D.M. non aveva mai agganciato quella di via De.Ro. così che la sentenza si fondava su una prova inesistente;

- nullità ex art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen e travisamento della prova in relazione all'aggravante 416bis.1 cod. pen. quanto alla valutazione delle dichiarazioni del collaboratore Ca. dalle quali non poteva ricavarsi che la causale dell’omicidio fosse l'affermazione della cosca sul territorio; in ogni caso, stante la natura soggettiva dell'aggravante mafiosa, era necessaria la motivazione in ordine all'elemento psicologico in capo a ciascuno dei concorrenti e quindi anche con riguardo alla consapevolezza in capo a D.M.;

- nullità ex art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen quanto agli art. 62bis, 81, 133 cod. pen. dovendosi ritenere irragionevoli gli aumenti di pena inflitti per i delitti di cui ai capi 6,7,8 e comunque per assenza della motivazione rispetto al discostamento dal minimo edittale; irragionevole doveva poi ritenersi l'aumento stabilito per il delitto di cui all’art. 416bis con riguardo al limitato periodo temporale; erroneo era il calcolo della pena inflitta in relazione al capo 6 valutato in anni 1 e mesi 6 sebbene il giudice avesse stabilito mesi 6 per la detenzione e mesi 9 per il porto e quindi complessivi anni 1 e mesi 3; in ogni caso, non avendo D.M. mai detenuto, portato ed utilizzato l'arma, doveva stabilirsi un aumento di pena inferiore agli anni 5 con conseguente irrogazione della sanzione in anni 30 in luogo dell'ergastolo, posto che in sede di abbreviato l'ergastolo può essere irrogato soltanto ove per i reati in continuazione venga stabilita una condanna superiore ad anni 5; infine i giudici di merito avevano omesso di valutare l'incensuratezza dell'imputato.



CONSIDERATO IN DIRITTO

 

2.1 Devono innanzi tutto essere analizzate alcune questioni comuni ai diversi ricorsi; con le impugnazioni avanzate nell'interesse degli imputati P., D.M. ed E. è stata avanzata sotto diversi profili la questione della inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni (decreti n. 3835/16 e n. 4108/16 ) disposte sulle utenze cellulari ritenute in uso temporaneo agli stessi, per illegittima acquisizione dei dati a seguito delle attività di polizia compiute sui cellulari di C. e De.Ma. convocati presso gli uffici di Polizia l'il ed il 30 novembre del 2016.

La doglianza non è fondata sotto diversi profili; invero va in primo luogo rammentato, come anche sottolineato dalla corte di appello nell’impugnata pronuncia, che proprio sul punto questa Corte di cassazione ha già affermato che l'acquisizione da parte della polizia giudiziaria del numero. di utenza telefonica mobile attraverso, l'esame, all'insaputa dell'indagato, dell'apparecchio cellulare a lui in uso rientra tra gli atti urgenti e "innominati" demandati agli organi di polizia giudiziaria, ai sensi degli artt. 55 e 348 cod. proc. pen., e, come tale, non è soggetta ad una preventiva autorizzazione dell'Autorità giudiziaria e neppure alla necessaria documentazione prevista dall’art. 357 cod. proc. pen., che non fa riferimento alle attività ed operazioni di cui all'art. 348 cod. proc. pen (Sez. 6, n. 20247 del 27/03/2018, Rv. 273273 - 01).

In motivazione, la sentenza predetta, emessa proprio in questo procedimento nella fase cautelare, ampiamente motiva detta scelta affermando espressamente che:" in primo luogo, va posto nel dovuto rilievo che l'esame di un apparato telefonico cellulare per estrarne, all'insaputa del titolare, il relativo numero telefonico non è qualificabile né come perquisizione ex art. 352 cod. proc. pen., dato che la Polizia giudiziaria non è evidentemente andata alla ricerca del corpo del reato o di cose ad esso pertinenti, né come ispezione di cose, posto che l'utenza non è qualificabile come traccia o altro effetto materiale del reato, come previsto dall'art. 244, comma 1 e 246 cod. proc. pen.; ancora, l'ottenimento, con le modalità di cui si è detto, della utenza telefonica cellulare non è in alcun modo assimilabile alla acquisizione dei dati del traffico telefonico perla quale, come affermato da Cass. Sez. Unite 13/7/1998 n. 21, Gallieri, Rv 211197, vi è la necessità della previa autorizzazione della Autorità giudiziaria dato che non si è trattato qui di accertare i contatti che detta utenza avrebbe intrattenuto con altre utenze ma solo, lo si ripete, di individuare il mero numero di utenza telefonica dell'apparecchio esaminato, così che è del tutto estraneo al tema in trattazione quello proposto da diversi ricorrenti in merito ad affermate violazioni, anche convenzionali, del diritto alla riservatezza... Sì tratta allora, evidentemente, di quelle attività urgenti ed "innominate" di Polizia giudiziaria di cui all'art. 55 e 348 cod. proc. pen. finalizzate alla assicurazione delle fonti di prova mediante la raccolta di ogni elementi utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole, come riconosciuto del resto dalla giurisprudenza di legittimità che ha avuto modo di chiarire, per un verso, che l'acquisizione di un cellulare e dei dati segnalati sul display si collocano tra gli atti urgenti demandati alla Polizia giudiziaria e, come tali, non subordinati a preventiva autorizzazione della Autorità giudiziaria (Cass. Sez. 4, 8/5/2003 n. 3435, Lanzetta, A/ 230060) e, dall'altro, che anche la ulteriore rilevazione del numero di una utenza contattata, conservato nella memoria di un apparecchio di telefonia mobile, è una operazione non assimilabile all'acquisizione dei dati di traffico conservati presso il gestore dei servizi telefonici e non necessita, quindi, de! decreto di autorizzazione dell'autorità giudiziaria, potendo conseguire ad una mera attività di ispezione del telefono da parte della polizia giudiziaria (così, Cass. Sez. 1, 13/3/2013, Romeo, Rv 255973).

3.7 Diretta conseguenza della qualificazione delle modalità con le quali la Polizia giudiziaria, mediante esame dell'apparecchio cellulare del De.Ma., è venuta in possesso del relativo numero telefonico come attività ex art. 348 cod. proc. pen. è poi quella per la quale l'attività stessa non era soggetta a necessaria documentazione ex art. 357 cod. proc. pen., dal momento che la norma processuale da ultimo citata non fa riferimento alle attività ed operazioni di cui al richiamato art. 348 cod. proc. pen., il tutto poi a prescindere dalla osservazione, comunque decisiva, che l'omessa documentazione di attività documentabili ex art. 357 cod. proc. pen. non determina alcuna nullità o inutilizzabilità (così Cass. Sez. 5 12/12/2015 n. 25799, Pm in proc. Stasi, Rv 267260). In definitiva, quindi, l'acquisizione da parte della Polizia giudiziaria, con le modalità sopra indicate, del numero di utenza cellulare del De.Ma. è avvenuto del tutto legittimamente e altrettanto legittimamente, quindi, lo stesso è stato sottoposto ad intercettazione urgente da parte dei Pm con il decreto 4108/2016 così come del tutto legittimi sono anche i successivi decreti emessi sempre in via di urgenza dal Pm per l'intercettazione delle utenze che risultavano aver intrattenuto contatti telefonici con la prima utenza del De.Ma.".

Tale conclusione, da cui non ritiene questo Collegio doversi discostare, non appare isolata nel panorama giurisprudenziale della Corte di legittimità dovendosi richiamare altri precedenti conformi sul punto e secondo cui l'utilizzazione dei dati segnalati sul display di un apparecchio di telefonia mobile non necessita del decreto di autorizzazione del g.i.p. in quanto tali elementi non sono assimilabili al contenuto di conversazioni o comunicazioni telefoniche, la cui utilizzazione è disciplinata dagli artt. 266 e ss. cod. proc. pen.; l'acquisizione del cellulare, infatti, rientra, trattandosi di oggetto da cui trarre tracce o elementi di prova, tra gli atti urgenti demandati agli organi di Polizia giudiziaria, ai sensi degli artt. 55 e 348 cod. proc. pen., e, come tale, non è subordinata alla preventiva autorizzazione da parte dell'autorità giudiziaria (Sez. 4, n. 3435 del 08/05/2003, Rv. 230060 - 01).

Se è vero pertanto che, come ampiamente e diffusamente segnalato dai ricorrenti, in tema di intercettazioni, il giudicato cautelare formatosi in punto di inutilizzabilità degli esiti captativi, a seguito di pronuncia della Corte di cassazione, non produce alcun effetto preclusivo e vincolante sulle determinazioni del giudice dibattimentale del procedimento principale, che provvede con autonomia piena a rivalutare le relative questioni, anche in ordine alla legittimità del mezzo di prova (Sez. 3, n. 1125 del 25/11/2020, (dep. 13/01/2021) Rv. 280271 - 01), tuttavia ciò non toglie che la conclusione cui è pervenuta la Corte di legittimità nella fase cautelare si inserisce in un più ampio solco giurisprudenziale e nel contesto del quale è stato ripetutamente affermata la legittimità della individuazione da parte della polizia giudiziaria non soltanto del numero dell'utenza in uso al soggetto ma anche di quelle contattate, come puntualmente avvenuto nel caso di specie; difatti al proposito va richiamato quell'orientamento secondo cui la rilevazione del numero di una utenza contattata, conservato nella memoria di un apparecchio di telefonia mobile, è una operazione non assimilabile all'acquisizione dei dati di traffico conservati presso il gestore dei servizi telefonici e non necessita, quindi, del decreto di autorizzazione dell'autorità giudiziaria, potendo conseguire ad una mera attività di ispezione del telefono da parte della polizia giudiziaria (Sez. 1, n. 24219 del 13/03/2013, Rv. 255973 - 01). Tale ultima pronuncia afferma anch'essa in motivazione principi del tutto analoghi a quelli in precedenza esaminati stabilendo in particolare che:" La dedotta inutilizzabilità non sussiste, in quanto la rilevazione dei numero dell'utenza contattata, conservato nella memoria di un telefono cellulare, non è operazione assimilabile all'acquisizione dei dati di traffico conservati presso il gestore dei servizi telefonici. Già Sez. U, n. 21 del 13/7/1998 (dep. 24/9/1998), Gallieri, Rv. 211197 chiarì che l'acquisizione dei cd, tabulati del traffico, telefonico soggiace alla necessità della previa autorizzazione giudiziaria perché "essi costituiscono la documentazione in forma intellegibile del flusso informatico relativo ai dati esterni al contenuto delle conversazioni aggiungendo che "l'acquisizione del tabulato, rappresentando un momento del trattamento dei dati, non può che soggiacere alla stessa disciplina quanto a garanzie di segretezza e dì libertà delle comunicazioni. Si comprende bene, alla luce di questa premessa, come la rilevazione dì un numero telefonico per mezzo della semplice ispezione di un oggetto, quale è l'apparecchio telefonico cellulare, non sia operazione riconducibile al trattamento dei dati relativi al flusso informatico di dati relativi alle comunicazioni".

Ne deriva affermare che le molteplici doglianze prospettate appaiono infondate alla luce dell'orientamento già espresso in sede di giudicato cautelare che appare conforme a molteplici pronunce di questa Corte di cassazione; e va sottolineato sul punto che non appare conforme a quanto contenuto nella detta sentenza n. 20247 del 27/03/2018 affermare che i principi sarebbero stati espressi solo e limitatamente alla operazione di acquisizione del numero di utenza telefonica del cellulare ispezionato, avendo invece quella pronuncia espressamente stabilito:" che anche la ulteriore rilevazione del numero di una utenza contattata, conservato nella memoria di un apparecchio di telefonia mobile, è una operazione non assimilabile all'acquisizione dei dati di traffico conservati presso il gestore dei servizi telefonici e non necessita, quindi, del decreto di autorizzazione dell'autorità giudiziaria, potendo conseguire ad una mera attività di ispezione del telefono da parte della polizia giudiziaria (così, Cass. Sez. 1, 13/3/2013, Romeo, Rv 255973)". Con la conseguenza di avere affermato la piena e completa utilizzabilità di tutte le operazioni compiute sia che avessero avuto ad oggetto l'individuazione del numero telefonico del cellulare esaminato sia quello delle altre utenze in memoria e precedentemente contattate".

2.2 I difensori nella esposizione dei motivi sul punto hanno anche richiamato la violazione di diverse norme introdotte anche recentemente nel codice di rito ed aventi ad oggetto l'acquisizione di dati sensibili contenuti in supporti quali gli apparecchi cellulari; si è così fatto riferimento alla norma generale di riferimento contenuta nell'art. 244 cod. proc. pen. e secondo cui:" L'ispezione delle persone, dei luoghi e delle cose è disposta con decreto motivato quando occorre accertare le tracce e gii altri effetti materiali dei reato" lamentandosene la violazione per assenza del decreto del pubblico ministero; all'art. 247 comma 1 bis cod. proc. pen. secondo cui:" Quando vi è fondato motivo di ritenere che dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato si trovino in un sistema informatico o telematico, ancorché protetto da misure di sicurezza, ne è disposta la perquisizione, adottando misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originati e ad impedirne l'alterazione" circostanze queste non verificate nel caso in esame; all’art. 352 comma 1 bis cod. proc. pen. che stabilisce analoga possibilità urgente solo in caso di arresto in flagranza, fermo di indiziato di delitto ed esecuzione di ordinanza cautelare e secondo cui:" Nella flagranza del reato, ovvero nei casi di cui al comma 2 quando sussistono i presupposti e le altre condizioni ivi previsti, gli ufficiati di polizia giudiziaria, adottando misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l'alterazione, procedono altresì alla perquisizione di sistemi informatici o. telematici, ancorché protetti da misure di sicurezza, quando hanno fondato motivo di ritenere che in questi si trovino occultati dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti ai reato che possono essere cancellati o dispersi all'art. 354 comma 2 cod. proc. pen. sugli accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose o sulle persone in base al quale:" Se vi è pericolo che le cose, le tracce e i luoghi indicati nei comma 1 si alterino o si disperdano o comunque si modifichino e il pubblico ministero non può intervenire tempestivamente, ovvero non ha ancora assunto la direzione delle indagini, gli ufficiali di polizia giudiziaria compiono i necessari accertamenti e rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose. In relazione ai dati, alle informazioni e ai programmi informatici o ai sistemi informatici o telematici, gli ufficiali della polizia giudiziaria adottano, altresì, le misure tecniche o impartiscono le prescrizioni necessarie ad assicurarne la conservazione e ad impedirne l'alterazione e l'accesso e provvedono, ove possibile, alla loro immediata duplicazione su adeguati supporti, mediante una procedura che assicuri la conformità della copia all'originale e la sua immodificabilità. Se del caso, sequestrano il corpo del reato e le cose a questo pertinenti [113 disp. att.]".

Orbene proprio con riferimento a dette disposizioni che le difese hanno assunto essere state violate si è affermato che la disciplina contenuta nell'art. 354, comma secondo, cod. proc. pen., che ha come unico ambito applicativo l'attività della polizia giudiziaria sul luogo e sulle tracce del reato, prevede l'obbligo di adottare modalità acquisitive idonee a garantire la conformità dei dati informatici acquisiti a quelli originali; ne deriva che la mancata adozione di tali modalità non comporta l'inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti, ma la necessità di valutare, in concreto, la sussistenza di eventuali alterazioni dei dati originali e la corrispondenza ad essi di quelli estratti. (Sez. 5, n. 22695 del 03/03/2017, Rv. 270139 - 01); con altra precedente pronuncia si è stabilito che l'estrazione di dati archiviati in un computer non costituisce accertamento tecnico irripetibile anche dopo l'entrata in vigore della legge 18 marzo 2008, n. 48, che ha introdotto unicamente l'obbligo di adottare modalità acquisitive idonee a garantire la conformità dei dati informatici acquisiti a quelli originali; ne deriva che la mancata adozione di tali modalità non comporta l'inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti, ma la necessità di valutare, in concreto, la sussistenza di eventuali alterazioni dei dati originali e la corrispondenza ad essi di quelli estratti (Sez. 2, n. 29061 del 01/07/2015, Rv. 264572 - 01).

Ne consegue che anche sotto tali profili le doglianze avanzate appaiono non fondate.

2.3 Tuttavia, anche a volere ammettere che il controllo eseguito sui cellulari del C. e del De.Ma. in occasione della loro convocazione presso gli uffici di polizia fu illegittimo perché disposto in contrasto con il combinato disposto delle norme in precedenza esaminate, da ciò non deriverebbe comunque la conseguenza della illegittimità dei successivi decreti autorizzativi e la inutilizzabilità delle intercettazioni poi disposte, invocata dai difensori ricorrenti; al proposito deve essere ricordato come il principio della invalidità derivata, ricavato dalla teoria del common law dei frutti dell'albero avvelenato (Fruits of poison tree) e secondo cui se la fonte (l'albero) della prova o la prova stessa è viziata, allora ogni cosa ottenuta (il frutto) tramite essa è a sua volta viziata, sia estraneo all'ordinamento italiano, come già ripetutamente affermato in diversi interventi sia di questa Corte di cassazione che del giudice delle leggi chiamato ripetutamente a pronunciarsi sul punto. In particolare si è affermato in un primo momento che il principio secondo cui la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi, che dipendono da quello dichiarato nullo, non trova applicazione in materia di inutilizzabilità, riguardando quest’ultima solo le prove illegittimamente acquisite e non altre la cui acquisizione sia avvenuta in modo autonomo e nelle forme consentite (Sez. 2, n. 44877 del 29/11/2011, Rv. 251361 - 01); il principio risulta ripetutamente ribadito da altre successive pronunce secondo cui il principio dell'invalidità derivata previsto dall'art. 185 cod. proc. pen. non è applicabile con riferimento alla inutilizzabilità, sicché la decisione che si basi su prova vietata non è di per sé invalida, potendo al più ritenersi nulla per difetto di motivazione, qualora non sussistano prove, ulteriori e diverse da quelle inutilizzabili, idonee a giustificarla (Sez. 6, n. 5457 del 12/09/2018, Rv. 275029 - 02).

A fronte di tale ricostruzione del giudice di legittimità anche nella elaborazione della Corte costituzionale si è pervenuti alla medesima conclusione; innanzitutto con la pronuncia n. 219 del 2019 sono state dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 191 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), la cui violazione i ricorsi richiamavano.

In tale pronuncia il giudice delle leggi ha espressamente preso posizione sul tema della inutilizzabilità derivata affermando che:" è lo stesso sistema normativo ad avallare la conclusione secondo la quale, per la inutilizzabilità che scaturisce dalla violazione di un divieto probatorio, non possa trovare applicazione un principio di "inutilizzabilità derivata", sulla falsariga di quanto è previsto invece, nel campo delle nullità, dall'art. 185, comma 1, cod. proc. pen., a norma del quale «[l]a nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo». Derivando il divieto probatorio e la conseguente "sanzione" della inutilizzabilità da una espressa previsione della legge, qualsiasi "estensione" di tale regime ad atti diversi da quelli cui si riferisce il divieto non potrebbe che essere frutto di una, altrettanto espressa, previsione legislativa...."; si afferma ancora nella stessa sentenza che:" La tesi del giudice rimettente, secondo la quale la illegittimità della perquisizione dovrebbe condurre - come soluzione costituzionalmente imposta - alla "inutilizzabilità" del sequestro del corpo del reato, secondo la nota teoria dei ”frutti dell'albero avvelenato", rinverrebbe, d'altra parte, la propria ragion d'essere nella circostanza che l'art. 191 cod. proc. pen. svolgerebbe una funzione di tipo "politico costituzionale", in quanto mirerebbe ad assicurare una effettiva tutela ai valori costituzionali coinvolti, disincentivando le loro violazioni finalizzate all'acquisizione della prova attraverso lo strumento della inutilizzabilità dei relativi risultati. Sarebbe proprio grazie a tale divieto di utilizzabilità - sostiene il giudice rimettente - che si «scoraggeranno e disincentiveranno quelle pratiche di acquisizione della prova con modalità illegali (e talora francamente illecite), che violano i diritti costituzionali al cui presidio sono appunto posti i divieti rinvenibili nel codice di rito e nelle norme spedali». In questa prospettiva, la stessa ratio essendi delle censure - volte a rendere automaticamente "contaminata" la utilizzabilità del sequestro, ove questo derivi da una perquisizione in ipotesi eseguita fuori dai casi consentiti dalla legge - finisce ineluttabilmente per coinvolgere scelte di "politica processuale" che la stessa Costituzione riserva a! legislatore".

La suddetta interpretazione circa l'impossibilità eli ricavare il principio della inutilizzabilità derivata in via interpretativa, come pure vorrebbero i ricorsi avanzati nell’odierno procedimento che prospettano l'inutilizzabilità delle intercettazioni legittimamente disposte sulle utenze solo per effetto della illegittima acquisizione dei numeri sulle quali venivano poi eseguite a seguito di quell'accesso agli apparecchi di C. e De.Ma., risulta ribadita dalle successive pronunce della stessa Corte costituzionale intervenuta sempre su analoghi punti; in particolare la sentenza n. 252 del 2020, richiamando espressamente la pronuncia n. 219 dell'anno precedente già esaminata, fissa una chiara interpretazione della categoria e dello spazio operativo delle inutilizzabilità:" distinguendo nettamente tale fenomeno dai profili di inefficacia conseguenti alla violazione di una regola sancita a pena di nullità dell'atto. Anche tale vizio resta, peraltro, soggetto - come le nullità - ai paradigmi della tassatività e della legalità. Essendo il diritto alla prova un connotato essenziale del processo penale, in quanto componente del giusto processo, è solo la legge a stabilire - con norme di stretta interpretazione, in ragione della loro natura eccezionale - quali siano e come si atteggino i divieti probatori, «in funzione di scelte di "politica processuale" che soltanto il legislatore è abilitato, nei limiti della ragionevolezza, ad esercitare». Di qui l'impossibilità - ripetutamente riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità -di riferire all’inutilizzabilità il regime del "vizio derivato", che l'art. 185, comma 1, cod. proc. pen. contempla solo nel campo delle nullità". E la stessa pronuncia aggiungeva che: "Lo stesso assunto del giudice a quo - evocativo della cosiddetta teoria dei "frutti dell'albero avvelenato" - secondo il quale la soluzione proposta sarebbe stata necessaria al fine di disincentivare le pratiche di acquisizione delle prove con modalità lesive dei diritti fondamentali (rendendole "non paganti"), rivelava come le questioni coinvolgessero scelte di politica processuale riservate al legislatore. L'obiettivo di disincentivare possibili abusi risultava, peraltro, perseguito dall'ordinamento vigente tramite la persecuzione diretta, in sede disciplinare o, se dei caso, anche penale, della condotta "abusiva" della polizia giudiziaria, come del resto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità".

Chiamata nuovamente a pronunciarsi sul tema in relazione ad alcuni profili solo parzialmente differenti prospettati dal giudice remittente, con la recente pronuncia n. 247/2022 la Corte costituzionale ha confermato il precedente orientamento; ed a fronte delle nuove prospettazioni circa la sussistenza all’intemo dell'ordinamento di fattispecie di inutilizzabilità derivata disciplinate dall'art. 191 comma 2 bis e dall’art. 103 cod. proc. pen. la corte, in tale ultima pronuncia, ha osservato:'' come, "proprio in ragione delle peculiarità "funzionali" che caratterizzano il sistema delle inutilizzabilità e dei connessi divieti probatori, in ragione dei valori che mirano a preservare, esista una gamma "differenziata" di regole di esclusione, alle quali corrisponde un altrettanto differenziato livello di lesione dei beni che quelle regole intendono tutelare: il tutto, come è ovvio, in funzione di scelte di "politica processuale" che soltanto il legislatore è abilitato, nei limiti della ragionevolezza, ad esercitare" (sentenza n. 219 del 2019). L'osservazione è riferibile anche alla fattispecie disciplinata dall'art. 103 cod. proc. pen., rispetto alla quale, peraltro, è di immediata evidenza la ragione che ha indotto il legislatore a dettare regole più severe quanto all'inutilizzabilità dei risultati probatori ottenuti contra legem, connettendosi al fatto che le ispezioni e le perquisizioni eseguite presso gii uffici dei difensori incidono non soltanto sull'inviolabilità del domicilio, ma anche sull’inviolabilità dei diritto di difesa: diritto che - come nota anche l'Avvocatura dello Stato - di là dalla natura "servente" che il rimettente gli attribuisce, si erge a "principio supremo" dell'ordinamento costituzionale".

L'applicazione del sopra esposto principio comporta affermare che non sussistendo un principio generale della invalidità derivata, anche a volere ammettere che l'operazione di acquisizione delle utenze contattate dai cellulari in uso a C. e De.Ma. da parte della polizia sia avvenuta illegittimamente perchè effettuata in violazione dei citati articoli del codice di rito, da ciò non deriverebbe però l'inutilizzabilità delle successive attività di captazione degli sms effettuate in forza di autonomi decreti di intercettazione privi di qualsiasi vizio. Così che quelle acquisizioni non potrebbero inficiare l'utilizzabilità delle successive intercettazioni effettuate sulle utenze identificate a seguito dell'analisi del traffico cellulare e dei contatti presenti nelle rispettive rubriche.

Ne consegue che al termine della predetta analisi tutte le doglianze avanzate dai difensori sia nei ricorsi principali che con i motivi aggiunti su tali aspetti si rivelano non fondate.

2.4 Conseguentemente anche le doglianze avanzate in tema di inutilizzabilità delle dichiarazioni quali soggetti informati dei fatti rese nelle stesse occasioni del novembre del 2016 dal De.Ma. e dagli altri soggetti convocati presso gli uffici di polizia che si assumono effettuate in violazione degli artt. 63 e 64 cod. proc. pen. non assumono rilevanza; invero l'eventuale inutilizzabilità di dette dichiarazioni, non si riverbera sulle successive intercettazioni secondo le osservazioni già ampiamente svolte per le stesse analoghe ragioni circa l'insussistenza di inutilizzabilità derivate.

2.5 Reiterativi ed anche in fatto appaiono poi il terzo motivo del ricorso principale avanzato nell'interesse dell'imputato P.D. ed il secondo motivo aggiunto a firma Avv.to Senese, con i quali si contesta il difetto di motivazione e la violazione della regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio in relazione all'affermazione di responsabilità dello stesso imputato per i fatti di omicidio e tentato omicidio a titolo di concorso di persone ex art. 110 cod. pen..

Premesso che la regola di giudizio compendiata nella formula "al di là di ogni ragionevole dubbio" rileva in sede di legittimità esclusivamente ove la sua violazione si traduca nella illogicità manifesta e decisiva della motivazione della sentenza, non avendo la Corte di cassazione alcun potere di autonoma valutazione delle fonti di prova (Sez. 2, n. 28957 del 03/04/2017, Rv. 270108 - 01), non appare a questo Collegio che l'impugnata pronuncia di appello, quanto all'affermazione di responsabilità del P. a titolo di concorso nei fatti delittuosi, sia affetta da alcuna illogicità, tanto più manifesta.

I giudici di merito, con valutazione conforme e che costituisce, quindi, un unico apparato argomentativo, hanno ricostruito il coinvolgimento del P. nella fase esecutiva di quel delitto, individuando dapprima la partecipazione dell'imputato ad un tentativo di agguato il giorno precedente i fatti e sottolineato poi come il ricorrente fosse stato prelevato presso la propria abitazione dal coimputato E. e trasferito in una abitazione ove si trovavano gli altri complici in attesa della informazione circa l'individuazione della vittima; inoltre, la sentenza di appello, espone nella parte motiva dedicata a tale imputato che, a tali elementi, si aggiungevano ancora ulteriori indizi gravi e concordanti ricavati dall'uso dell'utenza cellulare nello stesso luogo, Poggioreale, ove era stato incendiato quel furgone utilizzato per accedere al luogo di consumazione dell'omicidio ed altresì, circostanza assai significativa che neppure i ricorsi contestano, l'avvenuta contemporanea interruzione di tutte le utenze intestate oltre che al P. anche a D.M., E. e De.Ma. subito dopo l'agguato dal ché si ricavava con inferenza logica l'avvenuta esecuzione di un progetto comune.

A fronte di tali elementi le doglianze avanzate nei ricorsi prospettano letture alternative già confutate dai giudici di merito aventi ad oggetto la collocazione del P. la mattina dei fatti, essendosi sottolineata l'impossibilità di collocare lo stesso nella propria: abitazione di Ponticelli in considerazione del contenuto di quegli sms dai quali risultava la sua convocazione presso l'abitazione del Bordello proveniente da San Giorgio a Cremano e, quindi, la partecipazione dello stesso alla riunione prodromica l'omicidio. Così che tutte le doglianze riportate nel ricorso principale e nei motivi aggiunti appaiono avere trovato adeguata risposta da parte del giudice di appello rispetto al quale la riproposizione di una lettura alternativa espone i motivi alla censura di inammissibilità.

2.6 Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi anche in relazione al secondo motivo del ricorso avanzato nell'interesse di E.A. che prospetta doglianze in relazione all'affermazione di responsabilità riproponendo però argomenti già analizzati e confutati dalla corte di merito; il giudice di appello, con le argomentazioni esposte nella scheda dedicata proprio ad E. nella impugnata sentenza, ha, prima, ricostruito il quadro generale di inserimento del suddetto ricorrente nel clan D.M. e, poi, specificamente analizzato quegli elementi sulla base dei quali si riteneva che proprio E. avesse partecipato attivamente alla fase preparatoria ed esecutiva del delitto, dapprima fornendo un telefono cellulare al soggetto rimasto ignoto (c.d. "filatore") incaricato di individuare il Solla ed avvertire il gruppo di fuoco, poi partecipando alla riunione operativa svoltasi con i correi la mattina del 23 dicembre presso l'abitazione del Bordello, ancora dopo recandosi sul luogo dell'incendio del furgone utilizzato per l'omicidio, ed infine disattivando la scheda SIM prima utilizzata in contemporanea con gli altri coimputati coinvolti. Ora se è vero che per ciascuno di tali episodi il ricorso ripropone possibilità alternative contestando la ricostruzione dei fatti è certo comunque che il logico collegamento di tutti gli elementi probatori operati dalla corte di merito, costituiti dal contenuto dei messaggi sms scambiati tra i coimputati, dalle celle di aggancio delle utenze in quel momento in uso, dalla contemporanea interruzione delle stesse, sono tutti tasselli di un unico mosaico che correttamente la corte di appello ha proceduto a valorizzare congiuntamente e valutare senza incorrere in alcuna illogicità tanto più manifesta.

Occorre ricordare come in tema di valutazione congiunta e complessiva della prova indiziaria si è affermato che il metodo di lettura unitaria e complessiva dell'intero compendio probatorio non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e non può perciò prescindere dalla operazione propedeutica che consiste nel valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella propria valenza qualitativa e nel grado di precisione e gravità, per poi valorizzarla, ove ne ricorrano i presupposti, in una prospettiva globale e unitaria, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Rv. 231678 - 01); il principio risulta già anticipato da precedenti interventi delle Sezioni Unite secondo cui l'indizio è un fatto certo dal quale, per interferenza logica basata su regole di esperienza consolidate ed affidabili, si perviene alla dimostrazione del fatto incerto da provare secondo lo schema del cosiddetto sillogismo giudiziario. È possibile che da un fatto accertato sia logicamente desumibile una sola conseguenza, ma di norma il fatto indiziante è significativo di una pluralità di fatti non noti ed in tal caso può pervenirsi al superamento della relativa ambiguità indicativa dei singoli indizi applicando la regola metodologica fissata nell'art. 192, comma secondo, cod. proc. pen.. Peraltro l'apprezzamento unitario degli indizi per la verifica della confluenza verso un'univocità indicativa che dia la certezza logica dell'esistenza del fatto da provare, costituisce un'operazione logica che presuppone la previa valutazione di ciascuno singolarmente, onde saggiarne la valenza qualitativa individuale. Acquisita la valenza indicativa - sia pure di portata possibilistica e non univoca - di ciascun indizio deve allora passarsi al momento metodologico successivo dell'esame globale ed unitario, attraverso il quale la relativa ambiguità indicativa di ciascun elemento probatorio può risolversi, perché nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra con gli altri, di tal che l'insieme può assumere quel pregnante ed univoco significato dimostrativo che consente di ritenere conseguita la prova logica del fatto; prova logica che non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica), quando sia conseguita con la rigorosità metodologica che giustifica e sostanzia il principio del cosiddetto libero convincimento del giudice (Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, Rv. 191230 - 01).

L'applicazione dei sopra esposti principi al caso in esame deve portare ad escludere la sussistenza dei dedotti vizi anche nella valutazione della posizione dell'E. posto che la corte di appello ha dapprima proceduto ad analizzare proprio i singoli indizi e, poi, effettuato una valutazione complessiva in forza della quale concludeva per il coinvolgimento anche di detto ricorrente nella consumazione dell’omicidio Solla e del tentato omicidio A..

Quanto agli altri motivi avanzati nell'interesse di E. in relazione all’affermazione di responsabilità per il delitto di partecipazione ad associazione camorristica armata, le doglianze non possono trovare accoglimento posto che la corte di merito, nell'analizzare l'imputazione in riferimento a detta specifica posizione processuale, ha proceduto con il riassumere le dichiarazioni dei diversi collaboratori di giustizia i quali ne confermavano l'inserimento organico nel clan D.M. ( St. e Ca.) ed indicavano il preciso ruolo svolto dallo stesso nel settore degli stupefacenti sempre nell'interesse del gruppo criminale; e la corte di appello non ha omesso di motivare sulla doglianza, poi riproposta con il presente ricorso, circa la non compatibilità di detto inserimento rispetto all'autonomia nel settore del traffico di "erba" che viene proprio specificamente analizzata e spiegata in considerazione dell'evoluzione operativa del clan D.M. anche in quel settore che non escludeva il rapporto organico di E..

Le conclusioni circa la responsabilità del ricorrente risultano quindi fondate su una corretta analisi del materiale probatorio che in quanto priva di qualsiasi illogicità non appare censurabile nella presente sede di legittimità.

Prive di vizi appaiono anche le conclusioni circa la sussistenza della premeditazione nei fatti di omicidio e tentato omicidio alla luce della precisa analisi dei tempi di preparazione del fatto esposte dalla corte di appello ed individuate in un arco temporale di circa 30 ore, e cioè di almeno oltre un giorno intero, ricavato da precise circostanze di fatto; analogamente priva dei lamentati vizi appare l'esclusione delle attenuanti generiche motivata oltre che sulla estrema gravità dei fatti anche in ragione della negativa personalità dell'imputato.

2.7 Quanto alle doglianze avanzate nell'interesse eli D.M.L. il primo motivo del ricorso avv.to Perone ed il secondo motivo del primo ricorso dell'avv.to Vannetiello hanno trovato integrale risposta nelle osservazioni svolte ai punti 2.1, 2.2 e 2.3 della presente pronuncia nei quali si è analizzata la questione della inutilizzabilità delle intercettazioni per effetto della illegittima acquisizione dei dati delle utenze concludendo per il rigetto delle doglianze.

In relazione, poi, al motivo avanzato nel secondo punto del ricorso avv.to Perone ed al primo punto dell'avv.to Vannetiello (primo ricorso) relativo all'affermazione di responsabilità per il delitto di organizzazione di un'associazione camorristica, in relazione alla possibilità di un conflitto di giudicati ovvero della sovrapposizione di distinti giudizi con conseguente violazione del principio del ne bis in idem, va preliminarmente ricordato l'orientamento giurisprudenziale di questa Corte di cassazione in relazione al tempo del commesso reato nelle fattispecie permanenti e nel delitto associativo in particolare.

Sul tema occorre certamente fare riferimento ai principi affermati da una fondamentale sentenza delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 11930 del 11/11/1994, Rv. 199171) chiamata a pronunciarsi sul quesito della individuazione del momento interruttivo del reato permanente rispetto alla contestazione. In motivazione la suddetta pronuncia affermava in particolare che:" il quesito in esame, come meglio si dirà, deve essere risolto sulla base dell'interpretazione del singolo capo di accusa, ed avendo, inoltre, riguardo all'interferenza fra la struttura del reato permanente ed il principio della correlazione fra accusa e sentenza, enunciato negli artt.516-522 cod. proc. pen.. Secondo le citate norme il giudice del dibattimento può decidere soltanto su di un fatto che sia stato portato a conoscenza dell'imputato nei modi di legge, vale a dire mediante il decreto che dispone il giudizio, il decreto di citazione a giudizio, ovvero mediante gli ulteriori atti di contestazione, consentiti, nel corso del dibattimento, dall'art.516 per il caso in cui il fatto risulti diverso da come originariamente contestato, dall'art.517 per l'ipotesi in cui emerga un reato connesso o una nuova circostanza aggravante ed infine dall'art.518 per il caso in cui risulti un fatto nuovo. Ove poi il fatto risulti diverso da guello contestato nei modi anzidetti deve essere disposta, con ordinanza, a norma dell'art.521/2 cod. proc. pen., la trasmissione degli atti al P.M. e dall'inosservanza di queste regole consegue, ex art.522 cod. proc. pen., la nullità della sentenza. Sull'applicazione di tali norme, qualora all'imputato sia stato contestato un reato permanente, non può non influire la particolare struttura di questa ipotesi criminosa, caratterizzata dal fatto che, secondo la descrizione della norma incriminatrice, il processo consumativo non si esaurisce "uno actu", ma è invece suscettibile di protrarsi nel tempo, per la persistenza dell'offesa al bene giuridico tutelato, quale effetto di una condotta volontaria del soggetto attivo, perdurante anche dopo l'avverarsi degli elementi costitutivi del reato (cfr. Cass. I 25 gennaio 1993 n. 714, Daprea, mass. 192.800; Cass. Ili 29 marzo 1984 n. 2893, Rochas, mass. 163.396). Invero, nell'ipotesi in cui il capo d'imputazione sì limiti ad indicare soltanto la data iniziale del reato o quella della denunzia, ma non anche la data di cessazione della permanenza, la stessa idoneità del reato in esame a durare nel tempo comporta che l'originaria contestazione si estenda all'intero sviluppo della fattispecie criminosa e che, pertanto, l'imputato sia chiamato a difendersi, sin dall'origine, non soltanto in ordine alla parte già realizzatasi di tale fattispecie, ma anche con riguardo a quella successiva, perdurante sino alla cessazione della condotta o dell'offesa e comunque non oltre la sentenza di primo grado. In tal caso, pertanto, il giudice del dibattimento deve valorizzare, ai fini della condanna o comunque ad ogni effetto penale, anche la persistenza della condotta, emersa dall'istruttoria dibattimentale, dopo quelle date, senza che sia necessaria un'ulteriore specifica contestazione. A diversa conclusione deve invece pervenirsi nel caso in cui l'atto di accusa indichi, oltre all'eventuale data iniziale, anche quella di interruzione della permanenza. In tal caso, invero, essendo stata contestata una durata della permanenza precisamente individuata nel tempo, quanto meno nel suo momento terminale, il giudice può tener conto del successivo protrarsi dell'offesa soltanto qualora esso sia stato oggetto di un'ulteriore contestazione a cura del P. M. Infatti, la posticipazione della data finale della permanenza incide sull'individuazione del fatto, cosi come inizialmente contestato, comportandone una diversità, sotto il profilo temporale, certamente non secondaria o accessoria, in quanto essa influisce sulla gravità del reato e sulla misura della pena e può inoltre condizionare l'operatività di eventuali cause estintive. Ne consegue che, nell'ipotesi da ultimo considerata, il protrarsi della permanenza oltre la data anzidetta, deve essere contestato all'imputato a norma dell'art.516 cod. proc. pen., che regola appunto la modifica della contestazione per fatto diverso ".

I suddetti principi risultano costantemente ribaditi da successive pronunce essendosi affermato che ai fini della verifica, nell'ipotesi di reato permanente, dei presupposti di operatività del divieto di un secondo giudizio (art. 649 cod. proc. pen.), qualora la contestazione del fatto oggetto del giudicato rechi soltanto l'indicazione della data di inizio della consumazione, il termine finale della condotta criminosa deve essere individuato con riferimento alla data di pronuncia della sentenza di primo grado prescindendo dalla circostanza che l'esito del giudizio sia stato di condanna o di assoluzione, atteso che detta decisione contiene pur sempre un accertamento fattuale il quale, per la natura del reato che ne costituisce l'oggetto, non può aver riguardo al solo momento iniziale della condotta ma deve necessariamente tenere conto della sua durata nel tempo (Sez. 6, n. 12302 del 04/10/2000, Rv. 217950 - 01); ancora si afferma che in tema di divieto di un secondo giudizio riguardante un reato permanente, nell'ipotesi in cui la contestazione indichi soltanto il momento iniziale della condotta, senza specificare il momento della sua eventuale cessazione, quest'ultima deve ritenersi intervenuta alla data della sentenza di primo grado, a nulla rilevando la data del conclusivo giudicato (Sez. 2, n. 23695 del 22/03/2012, Rv. 253187 - 01).

Il suddetto principio può effettivamente ritenersi diritto vivente esser dosi anche recentemente confermato, in relazione all'analogo tema della previsione di diverse disposizioni sanzionatorie e di successione delle leggi penali nel tempo, che il regime sanzionatorio applicabile al reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. deve determinarsi con riferimento alla data di cessazione della permanenza così come contestata, se in forma cd. chiusa, se in forma cd. aperta, ovvero "sino ad oggi" e cioè alla data del rinvio a giudizio; ed in applicazione del principio, la Corte ha precisato che nelle ipotesi di contestazione in forma cd. aperta, quando cioè il capo di imputazione contesti la partecipazione "in permanenza attuale", vale quale momento finale consumativo della condotta associativa quello coincidente con la sentenza di primo grado, alla cui data, pertanto, va individuata la pena prevista (Sez. 2, n. 20098 del 03/06/2020, Rv. 279476 - 01).

Tale essendo l'interpretazione di questa Corte di cassazione deve essere esclusa la fondatezza delle doglianze con le quali entrambi i ricorsi deducono la violazione della regola del ne bis in idem e corrette appaiono sul punto le valutazioni espresse dalla corte di assise di appello al punto B) della motivazione ed alla nota n. 5, ove si sottolinea l'assenza di sovrapposizione dei due giudizi stante la diversità delle frazioni temporali prese in considerazione nei due distinti giudizi della condotta posta in essere dal D.M., peraltro nel primo procedimento qualificata a titolo di partecipazione e nel presente a titolo di direzione.

Né fondata appare la doglianza pure avanzata in relazione allo spostamento della data di consumazione dei fatti nell'altro procedimento sino alla prima sentenza di appello del 25 gennaio 2017, essendo stata pronunciata sentenza di condanna in riforma della assoluzione in primo grado. La tesi secondo cui in caso di riforma in appello della sentenza assolutoria avente ad oggetto un reato permanente la protrazione della condotta punibile dovrebbe farsi cessare alla data del dispositivo di secondo grado, appare invero essere formulata in violazione dei principi di diritto già in precedenza esaminati. Vale quale riferimento il principio affermato dalla già citata pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 11930 del 11/11/1994 cit.) che in motivazione affermano come:'' nell'ipotesi in cui il capo d’imputazione sì limiti ad indicare soltanto la data iniziale dei reato o quella della denunzia, ma non anche la data di cessazione della permanenza, la stessa idoneità del reato in esame a durare nel tempo comporta che l'originaria contestazione si estenda all'intero sviluppo della fattispecie criminosa e che, pertanto, l'imputato sia chiamato a difendersi, sin dall'origine, non soltanto in ordine alla parte già realizzatasi di tale fattispecie, ma anche con riguardo a quella successiva, perdurante sino alla cessazione della condotta o dell'offesa e comunque non oltre la sentenza di primo grado". E tale finale affermazione espressamente riferita a fatti avvenuti non oltre la sentenza di primo grado deve portare conseguentemente ad escludere che nel giudizio di appello di riforma della sentenza assolutoria possano essere prese in considerazioni condotte permanenti protrattesi dopo la prima pronuncia stante che il regime delle nuove contestazioni è per sua natura immanentemente destinato al solo giudizio di primo grado ed in appello la data di consumazione dei fatti non potrebbe più spostarsi in avanti.

La suddetta conclusione risulta peraltro già recepita da più pronunce di questa Corte di cassazione; secondo una chiara affermazione in tema di reato associativo, laddove la contestazione sia formulata senza specificazione del termine finale della condotta, la pronuncia della sentenza di primo grado segna il termine ultimo e invalicabile della protrazione della permanenza del reato, in quanto la condotta futura dell'imputato trascende necessariamente l'oggetto del giudizio (Sez. 6, n. 13085 del 03/10/2013, Rv. 259482 - 01). Precedentemente era già stato preso in considerazione proprio il tema della riforma in appello della sentenza assolutoria di primo grado avente ad oggetto un reato permanente affermandosi che in tema di delitti associativi, la permanenza del reato cessa con la pronuncia di primo grado, in quanto, a seguito dell'istruttoria dibattimentale espletata in tale fase, si accerta compiutamente il fatto da giudicare e si cristallizza l'imputazione, non più modificabile nei gradi di giudizio successivi; tale regola non muta nel caso di condanna in appello che segua una pronuncia assolutoria di primo grado nella quale, comunque, si definisce l'accertamento del fatto in contestazione. Ne deriva che, in tale ipotesi, la condotta che si protragga successivamente alla pronuncia assolutoria intervenuta in primo grado integra un nuovo reato (Sez. 5, n. 36928 del 18/04/2008, Rv. 241579 - 01). In motivazione tale ultima pronuncia, riferita proprio al caso specifico della riforma in appello della sentenza assolutoria di primo grado avente ad oggetto un reato associativo, precisa che:" la cessazione della permanenza del reato deve essere ricondotta al preciso accertamento del fatto in contestazione, che, come già detto, consegue alla istruttoria dibattimentale espletata in primo grado. Sotto tale profilo non vi è alcuna differenza tra sentenza di condanna e sentenza di assoluzione perché entrambe vengono pronunciate sul fatto compiutamente accertato che, come detto cristallizza la imputazione che non può essere più modificata (nel senso indicato vedi Cass., Sez. 6 penale, 4 ottobre 2000 - 29 novembre 2000, n. 12302). Quando a seguito di assoluzione in primo grado vi sia appello del Pubblico Ministero con conseguente sentenza di condanna in secondo grado non si sposta il momento della cessazione della permanenza del reato, che non può essere ricondotto alla pronuncia di condanna in secondo grado restando fissato tale momento alla pronuncia di assoluzione in primo grado, perché, come già rilevato, l'accertamento del fatto in contestazione è oramai definito con la pronuncia di primo grado e la rivalutazione della vicenda in appello non potrà che intervenire sul fatto compiutamente accertato. Da ciò consegue che ove mai la condotta dell'Imputato dovesse protrarsi, come è accaduto nel caso di specie, dopo la pronuncia assolutoria intervenuta con sentenza di primo grado, correttamente tale condotta sarà considerata un nuovo reato e non sarà ravvisabile nessuna violazione del principio del ne bis in idem".

L'applicazione dei sopra esposti principi comporta affermare l'infondatezza anche di tale doglianza poiché i fatti contestati nel presente procedimento hanno avuto ad oggetto condotte associative poste in essere da giugno del 2015 in poi e cioè proprio successivamente l'emissione della sentenza di primo grado nel separato giudizio avente ad oggetto l'accusa di partecipazione ad associazione camorristica a carico del D.M..

Il ricorso avv.to Vannetiello profila un ulteriore aspetto di violazione della regola del ne bis in idem sotto il profilo dell'avvenuta utilizzazione nei due procedimenti distinti delle medesime fonti di prova ed in particolare delle dichiarazioni rese dai medesimi collaboratori di giustizia; orbene, il tema viene affrontato dalla corte di assise di appello nella parte motiva dedicata alla posizione associativa del D.M. con valutazioni che appaiono del tutto prive dei lamentati vizi. Già alla nota n. 9 la sentenza impugnata precisa perfettamente che le dichiarazioni dei collaboratori prese in esame riguardano soltanto il nuovo periodo di contestazione dei fatti, con esclusione quindi della lamentata sovrapposizione di prove nei due giudizi, e tale conclusione non appare rispondere ad una asserzione priva di riscontro concreto posto che, lo stesso giudice di appello, oltre a riportare quelle accuse riguardanti condotte poste in essere dal 2016, precisa espressamente poi come un elemento assai significativo dello svolgimento dell'attività direttiva del clan, andasse individuato nella preparazione degli agguati in danno di Mi. e Ma. nonché nell'esecuzione dell'omicidio Solla e cioè tutti episodi assolutamente estranei al separato giudizio. In tal modo la corte di assise di appello si è conformata all’orientamento di legittimità secondo cui in tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, la condotta tipica deve essere provata con puntuale riferimento al periodo temporale considerato dall'imputazione, sicché, in caso di successione di condotte contestate a titolo di partecipazione o di direzione dell'organizzazione criminale, la rivalutazione delle prove acquisite e valutate nel corso di un precedente procedimento per il delitto di cui all'art. 461-bis cod. pen,, conclusosi con sentenza assolutoria in relazione ad un differente arco temporale, è subordinata alla circostanza che quegli elementi riguardino comunque il nuovo periodo temporale oggetto di contestazione e non attengano, invece, al periodo coperto dal giudicato assolutorio. In applicazione del principio, la Corte ha affermato che la chiamata in correità, quale elemento di prova principale, deve avere ad oggetto un'accusa relativa al periodo oggetto di successiva contestazione, rispetto al quale vanno, altresì, ricercati i riscontri individualizzanti (Sez. 2, n. 7870 del 28/01/2020, Rv. 277962 - 01). Principio come detto esattamente osservato nel caso in esame ove si è fatta utilizzazione di chiamate incrociate provenienti da diversi collaboratori ed aventi ad oggetto fatti successivi al 2015, ritenute riscontrate dalla predisposizione ed attuazione di condotte criminali in danno di altri affiliati indicative della posizione verticistica ricoperta dal ricorrente.

2.8 Il terzo motivo del ricorso avv.to Perone ed il primo motivo del secondo ricorso dell'avv.to Vannetiello, con i quali si muovono critiche all'affermazione di responsabilità per i delitti di omicidio e tentato omicidio di cui al capo n.5), propongono doglianze in fatto a fronte di una motivazione della corte di assise di appello priva di illogicità tanto più manifesta. Il giudice di secondo grado, al punto C) della motivazione, procede all'analisi specifica della posizione del D.M.L. sulla base dei motivi di gravame avanzati avverso la pronuncia del G.U.P. e confuta le tesi difensive circa i dubbi aventi ad oggetto l'identificazione delle utenze in uso al predetto ricorrente, puntualmente riproposti con i ricorsi, cui perviene sulla base sia di un dato dichiarativo proveniente dal Ca. che ritiene riscontrato, sia in forza dell'avvenuta verifica della presenza delle forze dell'ordine nei pressi dell'abitazione del Micco a seguito del quale era stato inviato un sms al coimputato De.Ma.. Trattasi di ragionamento di puro fatto privo dei lamentati vizi e pertanto non censurabile nella presente sede se non attraverso la riproposizione di quei dubbi già confutati dal giudizio di appello.

Accertata la riconducibilità al D.M. dell'utenza poi utilizzata dallo stesso per comunicare tramite sms nelle fasi preparatorie ed esecutive dell'omicidio, la corte di assise di appello procedeva ad analizzare quei messaggi scambiatisi tra tutti i correi che vedevano proprio D.M. svolgere un'attività direttiva nelle fasi culminanti nell'attentato in danno di Solla ed A., così pervenendo anche sul punto a conclusioni prive dei lamentati vizi,

Quanto poi alla responsabilità anche per il tentato omicidio A., che entrambi i ricorsi contestano sotto il profilo dell'assenza di qualsiasi forma di concorso punibile ed in specie di dolo, i giudici di merito hanno ricondotto la condotta esecutiva all'ipotesi dell'aberratio plurilesiva disciplinata dal secondo comma dell'art. 82 cod. pen. secondo cui:" qualora oltre alla persona diversa, sia offesa anche quella alla quale l'offesa era diretta, il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave aumentata fino alla metà”. Orbene anche a volere accedere alla tesi che configura quale elemento soggettivo dell’aberratio ictus plurilesiva il dolo misto a colpa, e cioè la volontaria aggressione alla vita della vittima designata e la prevedibilità della lesione anche di altri per le modalità esecutive del delitto, quale necessario criterio di imputazione, l'applicazione dei sopra esposti principi deve portare a concludere per la non fondatezza delle doglianze posto che la preventiva predisposizione di un agguato in danno di un soggetto frequentatore di un popoloso quartiere in piena ora meridiana in un giorno particolare (23 dicembre), nei pressi di una sala scommesse abitualmente frequentata dal pubblico, con la predisposizione di più armi da fuoco ha comportato anche l'attribuzione dell'evento del tentato omicidio al ricorrente senza che tale valutazione appare censurabile. Tanto più che dall'analisi dei messaggi immediatamente antecedenti l'esecuzione del delitto risulta che il c.d. filatore aveva avvertito della presenza del Solla intento a parlare con altri, così che l'ordine impartito dal D.M. in quel momento venne assunto quando era più che prevedibile l'aggressione anche ad altri soggetti. Al proposito occorre richiamare i principi stabiliti dalla pronuncia delle Sezioni Unite Antonucci; si è difatti affermato che l'espressa adesione del concorrente a un'impresa criminosa, consistente nella produzione di un evento gravemente lesivo mediante il necessario e concordato impiego di micidiali armi da sparo, implica comunque il consenso preventivo all'uso cruento e illimitato delle medesime da parte di colui che sia stato designato come esecutore materiale, anche per fronteggiare le eventuali evenienze peggiorative della vicenda o per garantirsi la via di fuga. Ne consegue che ricorre un'ipotesi di concorso ordinario a norma dell'art. 110 cod. pen, e non quella di concorso cosiddetto anomalo, ai sensi del successivo art. 116, nell'aggressione consumata con uso di tali armi in relazione all'effettivo verificarsi di qualsiasi evento lesivo del bene della vita e dell'incolumità individuale, oggetto dei già preventivati e prevedibili sviluppi, quantunque concretamente riconducibile alla scelta esecutiva dello sparatore sulla base di una valutazione della contingente situazione di fatto, la quale rientri comunque nel novero di quelle già astrattamente prefigurate in sede di accordo criminoso come suscettibili di dar luogo alla produzione dell'evento dannoso (Sez. U, n. 337 del 18/12/2008 (dep. 09/01/2009 ) Rv. 241574 - 01).

Corretto appare pertanto il riferimento della corte di assise di appello ai criteri di imputazione soggettiva del tentato omicidio sia per D.M. che per i rimanenti imputati, P. ed E., che pure hanno proposto analoghe doglianze.

Quanto poi al calcolo della pena, poiché l'aberratio ictus plurilesiva costituisce una fattispecie autonoma e non una circostanza aggravante correttamente i giudici di merito procedevano ad un aumento della sanzione base fissata per il più grave delitto di omicidio in relazione al fatto commesso in danno dell'A..

Difatti al proposito con più pronunce che seppur remote occorre richiamare si è affermato che l'ipotesi prevista dall'art. 82 cpv. Cod. pen. costituisce una figura criminosa assimilabile al concorso di reati e non già una circostanza aggravante dell'ipotesi contemplata nello stesso articolo al primo comma (Sez. 1, n. 11169 del 23/10/1981, Rv. 151346 - 01). Principio ribadito da altra successiva pronuncia secondo cui l'offesa di persona diversa da quella alla quale l'offesa era diretta ("aberratio ictus" con pluralità di eventi lesivi) dà luogo ad una fattispecie criminosa autonoma e unitaria, con autonoma previsione di pena determinata con aumento "per relationem" rispetto a quella prevista per il reato più grave. Pertanto, tale aumento di pena, servendo esso stesso a determinare la pena edittale - base ex art. 82 comma secondo cod. pen., non rientra nel calcolo imposto dal riconoscimento di continuazione o di circostanza aggravante (Sez. 1, n. 4210 del 06/02/1985, Rv. 169007 - 01). Anche le doglianze con le quali si è lamentata l'errata determinazione della pena nella valutazione dell'aumento per il tentato omicidio appaiono pertanto non fondate.

Quanto agli altri motivi avanzati nei distinti ricorsi proposti nell'Interesse del D.M.L.: l'aggravante della premeditazione (vedi posizione E.) risulta ampiamente motivata con riguardo a vari aspetti della ricostruzione del fatto che in relazione alla organizzazione dell’omicidio già il giorno precedente l'attentato, che hanno portato la corte di assise di appello a ritenere che l'intenzione delittuosa sorse con congruo anticipo rispetto alla fase esecutiva e venne mantenuta inalterata per tutto l'arco temporale come dimostrato dalle vicende relative alla localizzazione della vittima;

manifestamente infondata appare la doglianza in tema di armi posto che con le osservazioni svolte al punto E) della motivazione di appello la corte di assise spiega come siano imputati agli imputati i fatti di detenzione e porto di arma da sparo in forza della appartenenza di tutti i predetti al medesimo gruppo criminale e quindi della disponibilità di armi per tutti i suoi appartenenti nonché il distinto delitto di ricettazione di quel furgone utilizzato per la fuga dal luogo di consumazione dei fatti e poi rinvenuto in fiamme; il concorso nel fatto di incendio del furgone viene correttamente motivato dalla corte di assise in relazione alla accertata programmazione in concorso della fase esecutiva del delitto che portava i correi a sopprimere le tracce del reato dando alle fiamme il mezzo utilizzato dal De.Ma. per recarsi ed allontanarsi dai luoghi;

l'aggravante dell'agevolazione mafiosa ed in specie camorristica è stata affermata alla luce della finalità del delitto commesso per riaffermare il potere della famiglia D.M. capeggiata proprio dal D.M.L. in quel frangente con motivazione esente dai denunciati vizi; la funzione dirigenziale del D.M. all'Interno del gruppo criminale trova adeguata e congrua risposta nella trattazione in sede di appello della posizione di tale ricorrente ove vengono segnalati vari elementi ricavabili da plurime circostanze di fatto tutte logicamente interpretate circa lo svolgimento in concreto di tale ruolo direttivo alle quali si aggiungeva anche la valutazione della chiamata di correità del Ca.; l'aggravante dell'essere l'associazione armata viene adeguatamente motivata al punto 4 della sentenza impugnata ove si fa riferimento al possesso di plurime armi da fuoco, alcune anche sequestrate in danno di alcuni componenti del gruppo criminale, nonché alle modalità esecutive dell'efferato delitto che manifestano palesemente la disponibilità stessa;

alcun errore sussiste in relazione agli aumenti di pena stabiliti per continuazione posto che la corte di assise di appello, valutati gli stessi nella misura finale di anni 7 e mesi 10 che ridotti per il rito ammontano ad una pena superiore ad anni 5, correttamente stabiliva la sanzione finale dell'ergastolo;

alcun vizio sussiste nella determinazione degli aumenti per continuazione che il giudice di merito appare avere stabilito nell'esercizio del proprio potere discrezionale con statuizioni prive di qualsiasi vizio anche avuto riguardo all'entità della sanzione inflitta per il delitto associativo commesso nella sua espressione più grave del ruolo direttivo; manifestamente infondato appare il motivo avanzato in relazione alla pena inflitta in continuazione per il delitto di cui al capo n.6 posto che anche dalla sentenza di primo grado si rileva l'entità finale nella stessa misura stabilita dal giudice (pagina 850); in ogni caso il motivo appare proposto in difetto di interesse quanto agh aumenti di pena stabiliti per il reato di cui al capo 6 poiché anche a volere ridurre dettai sanzione di mesi 3 così come dedotto dalla difesa l'effetto finale dell'inflizione in continuazione di una sanzione superiore ad anni 5 non muterebbe.

2.9 Infondati appaiono poi i motivi di doglianza relativi alla posizione di De.Ma.An.; i difensori hanno lamentato vizi in relazione agli aumenti a titolo di continuazione stabiliti per i fatti concorrenti con il più grave episodio di omicidio stante l'irragionevolezza degli aumenti applicati dal giudice di primo grado confermati in appello. Orbene deve ritenersi che alcuna irragionevolezza deducibile con ricorso per. cassazione sussista, nel procedimento di determinazione della pena posto che i giudici di merito dopo avere stabilito che gli aumenti per continuazione erano stati fissati nella misura complessiva di anni 7 e mesi 10 hanno così affermato che, pur operata la riduzione per il rito abbreviato su detta sanzione, la pena finale era superiore ad anni 5 con la conseguenza che l'ergastolo con isolamento veniva sostituito dalla pena dell'ergastolo per effetto della riduzione per il rito.

Manifestamente infondata è poi la doglianza in punto determinazione dell'aumento per continuazione per il delitto di associazione camorristica posto che l'aumento fissato nella misura di anni 4 è stato adeguatamente motivato dal giudice di merito in relazione alla gravità delle condotte nell'esercizio del proprio potere discrezionale non censurabile nella presente sede.

Quanto infine all'ultima doglianza con la quale si lamentava l'errore di calcolo contenuto a pag. 850 della sentenza di primo grado in cui l'aumento di pena per i delitti di cui al capo 6 (detenzione e porto abusivo di armi) era stato determinato in anno 1 e mesi 6 di reclusione benché stabilito in mesi 6 di detenzione e mesi 9 per il porto e cioè in complessivi anni 1 e mesi 3 trattasi di evidente errore materiale nella fissazione delle singole pene per ciascuna delle fattispecie a fronte della esatta determinazione della sanzione complessiva pari proprio ad anni 1 e mesi 6 già stabilita nella sentenza di primo grado a pagina 850 e poi ribadita in appello.



P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali


Così deciso in Roma, il 19 aprile 2023.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2023