18 settembre 2018
CGUE: le SIM con servizi a pagamento preimpostati e già attivi costituiscono pratiche commerciali aggressive e sleali
di Annalisa Spedicato
Grazie alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea possiamo dire addio all'era delle SIM che contengono servizi a pagamento preimpostati e già attivati sui telefoni cellulari. E sì perché i giudici europei, nella sentenza a cause riunite (C-54/17 e C-55/17) pubblicata il 13 settembre 2018, hanno chiarito che immettere in commercio carte SIM contenenti servizi a pagamento preimpostati e previamente attivati sugli apparecchi telefonici, costituisce una pratica commerciale aggressiva e sleale, qualora i consumatori non ne siano stati espressamente informati.
Si tratta di un comportamento che costituisce una «fornitura non richiesta», la quale può essere sanzionata da un'autorità nazionale diversa da quella prevista dal diritto dell'Unione in materia di comunicazioni elettroniche.
I fatti
La questione trattata dalla Corte era stata avviata proprio nel nostro Paese nel 2012, quando, l'Autorità garante della Concorrenza e del Mercato («AGCM») inflisse ammende a due delle principali compagnie di comunicazione telefonica presenti sul nostro territorio per aver commercializzato carte SIM (Subscriber Identity Module) su cui erano preimpostati e previamente attivati servizi a pagamento di navigazione Internet e di segreteria telefonica. I costi di tali servizi venivano addebitati all'utente, salvo che questi non ne richiedesse espressamente la disattivazione. L'AGCM contestava alle società il fatto di non avere anticipatamente ed espressamente comunicato ai consumatori la preimpostazione in modalità attiva di tali servizi, né i loro costi. Il servizio di navigazione Internet poteva addirittura avviare connessioni all'insaputa dell'utente, mediante applicazioni definite «always on» (sempre attive).
Le compagnie telefoniche ricorsero al TAR del Lazio che annullò i provvedimenti dell'AGCM, in quanto ritenne che l'Autorità non avesse competenza nel comminare tali sanzioni, che, in base al nostro ordinamento, rientravano tra i poteri dell'Autorità Garante delle Comunicazioni, l'AGCOM.
Il diverbio si spostava in appello davanti al Consiglio di Stato, il quale rimetteva alcune questioni alla sua Adunanza plenaria. L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza del 2016, dichiarava che la competenza a sanzionare la mera violazione degli obblighi informativi nel settore delle comunicazioni elettroniche, secondo il diritto italiano è in capo all'AGCom, diversamente, la sanzione per una «pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva» (come, in particolare, una «fornitura non richiesta»), rientrava tra i poteri assegnati all'AGCM e ciò anche nel settore delle comunicazioni elettroniche.
Ad ogni modo, il Consiglio di Stato, interrogandosi sulla conformità delle proprie valutazioni rispetto al diritto europeo, decideva di sottoporre alla Corte di Giustizia alcune questioni sull'interpretazione, da un lato, della direttiva sulle pratiche commerciali sleali [direttiva 2005/29/CE] e, dall'altro, del diritto dell'Unione in materia di comunicazioni elettroniche [2002/21/CE e 2002/22/CE].
I giudici amministrativi chiedevano, in altri termini, alla Corte Europea di chiarire se il descritto comportamento delle compagnie di telefonia potesse rientrare nella definizione di fornitura non richiesta e dunque qualificarsi come una pratica commerciale aggressiva ai sensi della direttiva sulle pratiche commerciali sleali e se il diritto dell'Unione in materia di comunicazioni elettroniche confligga con una normativa nazionale in base alla quale una «fornitura non richiesta» rientra nella direttiva sulle pratiche commerciali sleali, con la conseguenza che l'ANR (Autorità Nazionali di Regolamentazione), per l'Italia l'Agcom, non è competente a sanzionare tale condotta.
Le valutazioni della CGUE
La Corte di Giustizia dell'UE, sulla scorta della normativa europea in materia di pratiche commerciali, ha precisato che i consumatori hanno il diritto di essere previamente informati dell'attivazione di servizi a pagamento, i quali non possono pertanto essere attivati a loro insaputa, poichè attivare servizi a pagamento senza che ciò sia stato previamente ed espressamente reso noto al consumatore, impedisce allo stesso di effettuare una libera scelta sull'acquisto di tali servizi, in considerazione, peraltro, del fatto che non deve ritenersi palese che un acquirente medio di carte SIM possa essere consapevole che tali carte abbiano in sé servizi preimpostati e previamente attivati che danno origine a costi aggiuntivi o del fatto che alcune applicazioni si avviano automaticamente sul proprio apparecchio collegandosi alla rete Internet a sua insaputa, né che egli abbia, in ogni caso, le competenze tecniche necessarie a bloccare tali servizi o tali connessioni automatiche sul suo apparecchio.
La Corte conclude che condotte come quelle qui imputate agli operatori di telefonia costituiscono una «fornitura non richiesta» e, pertanto, ai sensi della direttiva sulle pratiche commerciali sleali, sono da qualificarsi come pratica sleale, anzi in ogni caso aggressiva.
I giudici europei, osservano inoltre che non vi è contrasto tra la direttiva sulle pratiche commerciali sleali (2005/29/CE) e la direttiva cosiddetta «servizio universale» (2002/22/CE): quest'ultima impone ai fornitori di servizi di comunicazioni elettroniche di fornire determinate informazioni nel contratto, mentre la prima disciplina aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, come la «fornitura non richiesta».
Ragion per cui, il diritto dell'Unione non impedisce a una normativa nazionale di stabilire che una «fornitura non richiesta» venga valutata alla luce della direttiva sulle pratiche commerciali sleali, con la conseguenza che sui fatti di causa può decidere l'AGCM.
Annalisa Spedicato
Avvocato esperto in IP, ICT e Privacy