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8 aprile 2019

Violazione del diritto alla privacy mediante diffusione di dati sensibili nel corso di una trasmissione televisiva riguardante un processo penale

Se la diffusione in televisione delle immagini di deposizioni testimoniali rese in un processo penale è lecita qualora sia attuata con accorgimenti idonei ad impedire l'identificazione dei testimoni, risulta incongruo e contraddittorio affermare che, poiché gli accorgimenti tecnici suggeriti dal tribunale avrebbero impedito la "valenza delle riprese", dovevano ritenersi legittimi anche mezzi non idonei ad impedire l'identificazione.

In tal senso si è pronunciata la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9340, depositata il 4 aprile 2019.

Le ricorrenti hanno agito in giudizio nei confronti della RAI - Radiotelevisione Italiana S.p.A. - per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza della violazione del loro diritto alla privacy, per l'avvenuta diffusione di dati sensibili che le riguardavano, nel corso di una trasmissione televisiva riguardante il processo penale nel quale esse (quali vittime dei reati per cui si procedeva) avevano reso deposizioni testimoniali.

Le riprese televisive del processo penale nel quale le attrici, parti lese, avevano reso deposizioni testimoniali, erano state autorizzate dal giudice penale e le stesse attrici avevano autorizzato la diffusione delle proprie deposizioni, a condizione che venisse tutelato il loro diritto all'anonimato e, quindi, non fossero trasmesse immagini che consentissero la loro identificazione, ai sensi dell'art. 147 disp. att. cod. proc. pen.. 

Il Tribunale di Roma ha accolto la domanda, mentre la Corte d’appello, in riforma della decisione di primo grado, l’ha rigettata.

Con la pronuncia in esame, la Corte di Cassazione, a seguito dell’impugnazione proposta contro la sentenza di secondo grado per violazione dell'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. in relazione alla falsa applicazione degli articoli 136, 137 e 139 Codice della Privacy nonché degli artt. 6, 8, 9, 10 11, 12 Codice Deontologico (art. 25, L. n. 675/1996), accoglie il ricorso ritenendolo fondato.

Secondo la decisione del giudice di primo grado, nel caso di specie, il "rispetto del principio di essenzialità dell'informazione si traduceva nell'ottica di un corretto bilanciamento tra il diritto all'informazione e quelio alla dignità ed alla riservatezza dei soggetti coinvolti, nell'adozione di accorgimenti atti a non svelare l'identità personale dei soggetti ..."; tale principio era stato di conseguenza violato, in quanto la trasmissione delle immagini del processo, per le modalità tecniche con le quali era avvenuta, consentiva in realtà l'identificazione delle attrici, quanto meno nella cerchia dei loro conoscenti. Pur non essendo stata trasmessa la parte del processo in cui venivano espressamente indicate le loro generalità, le riprese erano avvenute in campo corto, l'oscuramento dei volti non era stato completo (ma limitato alla sola parte superiore degli stessi) e non era stata operata alcuna alterazione delle voci; inoltre, in occasione di alcuni cambi di inquadratura, era risultato possibile intravedere anche il naso e l'occhio di una di esse. Non erano stati, in altri termini, adottati accorgimenti idonei ad impedire l'identificazione delle testimoni.

La Corte d’appello, invece, ritiene invece che "... le modalità utilizzate costituiscano un equilibrato bilanciamento tra il dovere di cronaca e la tutela della riservatezza sotto il profilo della protezione dei dati personali, non potendo pretendersi l'adozione delle più penetranti modalità tecniche suggerite dal giudice di primo grado, se non privando del tutto le riprese di qualsiasi valenza".

In sostanza, i giudici d'appello non mettono in discussione l'assunto di diritto (già fatto proprio dal giudice di primo grado) secondo il quale l'autorizzazione ed il consenso alle riprese del processo penale e lo stesso rispetto del principio di essenzialità dell'informazione dovevano ritenersi nella specie subordinati all'adozione di accorgimenti tecnici idonei ad impedire in concreto l'identificazione delle attrici, testimoni nel processo e vittime del reato. Tale assunto, del resto (oltre ad essere sostanzialmente incontestato sin dal primo grado e ad essere stato, almeno in modo implicito, fatto proprio dalla corte di appello), risulta - il che assume carattere assorbente - del tutto conforme, in diritto, alla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia, non essendo mai stata autorizzata né dal giudice penale né dalle interessate, ai sensi dell'art. 147 disp. att. cod. proc. pen., la diffusione di immagini con modalità tali da consentire la loro identificazione (sia pure nella cerchia ristretta dei loro conoscenti), e non potendo ritenersi comunque tale identificazione - come è evidente - in alcun modo essenziale ai fini della completezza dell'informazione in ordine ai contenuti del processo e delle deposizioni in esso rese e, quindi, lecita anche senza il consenso delle stesse interessate

I principi di diritto predetti, pur correttamente affermati, risultano però falsamente applicati dalla Corte d’ppello. Quest'ultima non ha infatti in alcun modo proceduto ad accertare se gli accorgimenti tecnici adottati dalla società convenuta - a differenza di quanto espressamente e motivatamente statuito dal Tribunale - fossero effettivamente idonei ad impedire l'identificazione delle attrici, limitandosi ad affermare, in maniera del tutto apodittica, l'avvenuto bilanciamento tra le esigenze del diritto di cronaca e quelle della tutela della riservatezza, a prescindere dalla idoneità di quegli accorgimenti a garantire l'anonimato alle attrici stesse. Anzi, dal complesso della motivazione della decisione impugnata - in cui non si mette in alcun modo in discussione il motivato accertamento in fatto operato dal Tribunale, di assoluta inidoneità degli accorgimenti tecnici in questione - sembra addirittura emergere che tale inidoneità sia data per scontata e pacifica e che la controversia venga risolta su un diverso piano.

Ma, in tal modo - sottolinea la Corte di Cassazione - l'argomentazione in diritto posta dalla Corte territoriale a fondamento della sua decisione risulta falsata da evidenti difetti logici. Infatti, i giudici di secondo grado riconoscono che le misure adottate dalla RAI non avevano affatto impedito tale identificazione o, comunque, non accertano affatto tale circostanza di fatto. E ne fanno conseguire, con una conclusione assolutamente contraria alla premessa ed alla logica, che la riservatezza delle ricorrenti ed il principio di essenzialità dell'informazione erano stati bilanciati e, quindi, entrambi rispettati. A tale scopo effettuano una ulteriore affermazione: quella per cui, se si fossero adottati gli accorgimenti suggeriti dal tribunale per impedire l'identificazione delle testimoni, la valenza delle riprese sarebbe stata del tutto vanificata. Ma tale ultima affermazione, per un verso, risulta del tutto apodittica, oltre che palesemente falsa sul piano logico e astratto: è evidente che oscurare completamente i volti, oppure riprendere le testimoni di spalle o alterare la loro voce, non può in nessun modo influire sulla completezza dell'informazione relativa al contenuto delle loro deposizioni e del processo in generale.

Alla luce delle predette considerazioni, gli Ermellini cassano con rinvio la sentenza d'appello.