• Concorrenza - Concentrazioni tra imprese -Radiotelevisione, diritti televisivi, editoria e stampa, servizi pubblicitari

19 aprile 2021

Tribunale Milano 19/04/2021 [Concorrenza - Concentrazioni - Manutenzione del contratto di scambio di partecipazioni azionarie sottoscritto tra Mediaset e Vivendi - Esecuzione del contratto subordinata alla condizione sospensiva del rilascio da parte delle Autorità preposte delle autorizzazioni necessarie all’attuazione dell’operazione secondo le disposizioni normative nazionali e sovranazionali]

Concorrenza - Concentrazioni - Manutenzione del contratto di scambio di partecipazioni azionarie sottoscritto tra Mediaset e Vivendi - Esecuzione del contratto subordinata alla condizione sospensiva del rilascio da parte delle Autorità preposte delle autorizzazioni necessarie all’attuazione dell’operazione secondo le disposizioni normative nazionali e sovranazionali - Grave inadempimento della società convenuta alle obbligazioni assunte con la stipulazione dell’accordo per far dichiarare l’avveramento, prima della scadenza del termine pattuito per la conclusione delle operazioni di permuta delle partecipazioni sociali, della condizione sospensiva a cui era sottoposto - Condanna al risarcimento dei danni.

 

SENTENZA

n. 3227/2021, pubbl. il 19/04/2021

(Giudice relatore: dott.ssa Daniela Marconi)

 

Nelle cause civili riunite iscritte al n. 47205 e al n. 47575 del ruolo generale degli affari contenziosi civili per l’anno 2016 promosse

La prima causa da:

MEDIASET S.P.A. e RETI TELEVISIVE ITALIANE S.P.A. con sede rispettivamente a Milano e Roma, in persona, ciascuna, del legale rappresentante Marco Giordani, elettivamente domiciliate a Milano presso lo studio dell’avv. Vincenzo Mariconda che le rappresenta e difende unitamente agli avvocati Michele Centonze, Gian Michele Roberti e Guido Bellitti per procura speciale in calce all’atto di citazione,

ATTRICI

 

contro

VIVENDI S.A., con sede a Parigi, in persona del legale rappresentante Arnaud de Puyfontaine, elettivamente domiciliata a Milano, presso lo studio dell’avv. Francesca Gesualdi che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Giuseppe Scassellati Sforzolini, Ferdinando Emanuele, Gianluca Faella, Paolo Rainelli, Roberto Argeri, Federico Cenzi Venezze, per procura speciale in calce alla comparsa di risposta e alla comparsa di costituzione in data 18.9.2020,

CONVENUTA

 

contro

MEDIASET PREMIUM S.P.A. con sede a Milano, in persona del legale rappresentante Marco Giordani, elettivamente domiciliata a Milano presso lo studio dell’avv. Vincenzo Mariconda che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Michele Centonze, Gian Michele Roberti e Guido Bellitti per procura speciale in calce all’atto di intervento volontario in data 28.1.2019,

 

TERZA INTERVENUTA

La seconda causa da:

FINANZIARIA DI INVESTIMENTO FINIVENVEST S.P.A. con sede a Roma, in persona del legale rappresentante Danilo Pellegrino, elettivamente domiciliata a Milano Corso di Porta Vittoria n. 46, rappresentata e difesa dagli avvocati Andrea Di Porto, Niccolò Ghedini, Aldo Baldaccini, Paolo Cavallari e Simone Conti per procura speciale a margine dell’atto di citazione,

ATTRICE

 

contro

VIVENDI S.A., con sede a Parigi, in persona del legale rappresentante Arnaud de Puyfontaine, elettivamente domiciliata a Milano, presso lo studio dell’avv. Francesca Gesualdi che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Giuseppe Scassellati Sforzolini, Ferdinando Emanuele, Gianluca Faella, Paolo Rainelli, Roberto Argeri, Federico Cenzi Venezze, per procura speciale in calce alla comparsa di risposta e alla comparsa di costituzione in data 18.9.2020,

CONVENUTA

 

contro

MEDIASET PREMIUM S.P.A. con sede a Milano, in persona del legale rappresentante Marco Giordani, elettivamente domiciliata a Milano presso lo studio dell’avv. Vincenzo Mariconda che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Michele Centonze, Gian Michele Roberti e Guido Bellitti per procura speciale in calce all’atto di intervento volontario in data 28.1.2019,

 

TERZA INTERVENUTA

 

CONCLUSIONI

Nell’interesse delle società attrici Mediaset s.p.a. RTI s.p.a. e della terza intervenuta Mediaset Premium s.p.a.: Voglia il Tribunale, previa, ove occorra, revoca dell’ordinanza pronunciata in data 29 luglio 2019, respinta ogni avversa domanda, eccezione e istanza, così giudicare:

1) accertare e dichiarare il grave inadempimento di Vivendi al Contratto SPA dell’8 aprile 2016 concluso con RTI e Mediaset;

2) accertare e dichiarare (a) la violazione da parte di Vivendi del divieto di acquisto di azioni di Mediaset sulla stessa gravante per effetto del Contratto; e/o (b) la nullità degli acquisti di azioni di Mediaset per effetto dell’accertata violazione da parte di Vivendi dell’art. 43 Tusmar;

3) per l’effetto, risolvere il Contratto SPA dell’8 aprile 2016, e

4) condannare Vivendi a risarcire a Mediaset e RTI (anche quale soggetto incorporante di Mediaset Premium s.p.a.) tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali sofferti in conseguenza delle condotte descritte in atti, da liquidarsi dal Giudice in via equitativa sussistendo i presupposti di cui all’art. 1226 c.c. nonché, quanto ai danni conseguenti alla condotta di cui alla conclusione sub 1), anche alla luce della documentazione prodotta e, in specie, del doc. n. 95 (consulenza del prof. Mario Massari), che quantifica l’ammontare del danno in complessivi euro 683.359.633,86, oltre interessi e rivalutazione monetaria;

5) con vittoria di spese e onorari.

Sul piano istruttorio: accogliere le istanze, eccezioni e deduzioni svolte nei precedenti scritti difensivi e nelle udienze di causa, da intendersi qui integralmente richiamate.

Nell’interesse della società attrice Fininvest s.p.a.: Voglia il Tribunale, respinta ogni contraria istanza ed eccezione, così provvedere:

I.a) nel merito e in via principale, previo accertamento che la condizione sospensiva prevista dalla Sezione 2 dell’Accordo di scambio di azioni sottoscritto l’8 aprile 2016 deve considerarsi avverata, ai sensi dell’art. 1359 c.c. o, comunque, che Vivendi SA si è resa inadempiente agli obblighi contrattualmente assunti e funzionali all’avveramento della predetta condizione, accertare e dichiarare che Vivendi SA si è resa inadempiente al Patto parasociale attraverso l’acquisto del 28,8% del capitale sociale di Mediaset S.p.a. e il 29,9% dei diritti di voto e, per l’effetto, dichiarare la risoluzione del patto parasociale, nonché condannare Vivendi SA a risarcire il danno subito da Fininvest S.p.a. che si quantifica in euro 1.000.000.000 – comprensivi del danno da perdita di valore del pacchetto azionario acquistato in fase di difesa, del danno connesso al costo del capitale impiegato per gli acquisti, del danno da riduzione della “marketability” del pacchetto acquistato, che, alla data odierna, ammontano, rispettivamente, ad euro 118.332.449, euro 76.692.834, ed euro 11.919.779 – ovvero nella maggiore o minore somma che sarà ritenuta di giustizia, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria;

I.b) ancora nel merito, ma in via subordinata, previo accertamento della sussistenza di un preliminare di patto parasociale efficace e vincolante tra le parti, con conseguente operatività dei relativi obblighi di correttezza e buona fede, accertare e dichiarare che Vivendi SA ha violato i predetti obblighi attraverso l’acquisto del 28,8% del capitale sociale di Mediaset S.p.a. e il 29,9% dei diritti di voto e, per l’effetto, dichiarare la risoluzione del preliminare di patto parasociale, nonché condannare Vivendi SA a risarcire il danno subito da Fininvest S.p.a. che si quantifica in euro 1.000.000.000 – comprensivi del danno da perdita di valore del pacchetto azionario acquistato in fase di difesa, del danno connesso al costo del capitale impiegato per gli acquisti, del danno da riduzione della “marketability” del pacchetto acquistato, che, alla data odierna, ammontano, rispettivamente, ad euro 118.332.449, euro 76.692.834, ed euro 11.919.779 – ovvero nella maggiore o minore somma che sarà ritenuta di giustizia, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria;

I.b-bis) in via ulteriormente subordinata rispetto alle superiori domande sub lettere a e b, previo accertamento della sussistenza in capo a Vivendi SA di obblighi di protezione, correttezza e buona fede nei confronti di Fininvest S.p.a., discendenti dal contatto sociale qualificato tra le medesime parti o dalla particolare struttura del contratto dell’8 aprile 2016, qualificabile come contratto con effetti protettivi in favore di terzo, accertare e dichiarare che detti obblighi sono stati violati da Vivendi SA attraverso l’acquisto del 28,8% del capitale sociale di Mediaset S.p.a. e il 29,9 % dei diritti di voto e, per l’effetto, condannare la stessa Vivendi al risarcimento di tutti i danni che si quantificano in euro 1.000.000.000 – comprensivi del danno da perdita di valore del pacchetto azionario acquistato in fase di difesa, del danno connesso al costo del capitale impiegato per gli acquisti, del danno da riduzione della “marketability” del pacchetto acquistato, che, alla data odierna, ammontano, rispettivamente, ad euro 118.332.449, euro 76.692.834, ed euro 11.919.779 – ovvero nella maggiore o minore somma che sarà ritenuta di giustizia, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria;

II) con riferimento alla domanda di risarcimento derivante dal rifiuto di Vivendi di portare a termine la partnership (di cui all’accordo dell’8 aprile 2016 e del connesso patto parasociale) e alla campagna denigratoria, accertare e dichiarare che Vivendi SA ha violato precisi e vincolanti obblighi contrattuali, oltre che il più generale principio del neminem ledere, come meglio descritto nel corpo dell’atto di citazione e dei successivi scritti difensivi e, per l’effetto, condannare la stessa Vivendi SA, ai sensi degli artt. 1218, 1223, 1225, 2043 e 2056 c.c., a risarcire in favore di Fininvest S.p.a. i seguenti danni:

a) il danno al valore della partecipazione strategica detenuta da Fininvest S.p.a. in Mediaset S.p.a., che si chiede di liquidare in una somma non inferiore a euro 1.180.233.423,00, ovvero nella maggiore o minore somma che sarà ritenuta di giustizia, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria;

b) il danno ai processi decisionali e alla pianificazione strategica di Fininvest S.p.a., che si chiede di liquidare in una somma non inferiore ad euro 150.000.000,00, ovvero nella maggiore o minore somma che sarà ritenuta di giustizia, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria;

c) il danno alla reputazione e immagine di Fininvest S.p.a., che si chiede di liquidare in una somma non inferiore ad euro 150.000.000,00, ovvero nella maggiore o minore somma che sarà ritenuta di giustizia, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.

Il tutto, per un importo complessivo non inferiore a euro 1.480.233.423,00, ovvero nella maggiore o minore somma che sarà ritenuta di giustizia, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.

In via istruttoria, ammettere le istanze formulate da Fininvest S.p.a. e, dunque, disporre: i) la consulenza tecnica d’ufficio per la quantificazione dei danni subiti richiesta nella memoria ex art. 183, comma 6, n. 2 c.p.c. (pag. 25); ii) la prova testimoniale articolata nei 46 capitoli indicati nella memoria ex art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c. (pagg. 25-34) con i testi ivi indicati (pagg. 34-35); iii) la prova contraria, richiesta nella memoria ex art. 183, comma 6, n. 3 c.p.c., con i testi indicati nella memoria ex art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c. (pagg. 34- 35), su tutti i capitoli di prova testimoniale di Vivendi che dovessero essere ammessi.

In ogni caso, rigettare integralmente ogni domanda, istanza e eccezione formulate da Vivendi SA perché infondate in fatto e in diritto.

Con vittoria di spese e compensi professionali, oltre IVA, CPA e spese generali nella misura di legge.

Nell’interesse della società convenuta Vivendi s.a.: Voglia il Tribunale, contrariis rejectis,

A. quanto alla causa con R.G. n. 47205/2016 proposta da Mediaset S.p.A. e Reti Televisive Italiane S.p.A.:

1. in via principale, accertare e dichiarare che l’accordo di scambio azionario sottoscritto inter partes in data 8 aprile 2016 non è divenuto efficace per mancato avveramento della condizione prevista dall’articolo 2.2;

2. in alternativa, annullare l’accordo di scambio azionario sottoscritto inter partes in data 8 aprile 2016 ai sensi dell’art. 1439 c.c.;

3. in via subordinata, accertare e dichiarare l’avvenuto legittimo recesso di Vivendi S.E. dall’accordo di scambio azionario sottoscritto inter partes in data 8 aprile 2016;

4. in via ulteriormente subordinata, accertare e dichiarare la risoluzione e, comunque, l’inefficacia dell’accordo di scambio azionario sottoscritto inter partes in data 8 aprile 2016 nonché, ove occorra, risolverlo ai sensi dell’art. 1453 c.c. per fatto e colpa delle attrici;

5. in ogni caso, rigettare integralmente le domande formulate ex adverso perché infondate in fatto e in diritto;

6. in via riconvenzionale, condannare le attrici, in solido, al risarcimento dei danni causati a Vivendi S.E. in misura pari a Euro 62.155.615,00 (o alla maggiore o inferiore misura ritenuta di giustizia o eventualmente liquidata in via equitativa), di cui (i) Euro 3.055.615,00, per costi sostenuti dalla stessa Vivendi S.E. durante la negoziazione e dopo la sottoscrizione del Contratto nonché (ii) Euro 59.100.000,00 per danni all’immagine e alla reputazione causati dalle attrici, oltre al pagamento di una somma equitativamente determinata ex art. 96, comma 3, c.p.c., più interessi e rivalutazione ex lege su ciascun importo liquidato;

B. quanto alla causa con R.G. n. 47575/2016 proposta da Finanziaria di Investimento S.p.A.:

1. in via pregiudiziale, accertare e dichiarare l’inammissibilità di tutte le domande formulate da Finanziaria di Investimento Fininvest S.p.A. nei confronti di Vivendi S.E. per difetto di legittimazione attiva e/o interesse ad agire;

2. nel merito, dichiarare inammissibili o, comunque, infondate e, per l’effetto, respingere tutte le domande formulate da Finanziaria di Investimento Fininvest S.p.A. nei confronti di Vivendi S.E.; 3. in via riconvenzionale, condannare Finanziaria di Investimento Fininvest S.p.A. al risarcimento dei danni subiti da Vivendi S.E. nella misura accertata in corso di causa o da liquidare in via equitativa nonché al pagamento di una somma equitativamente determinata ex art. 96, comma 3, c.p.c.

C. quanto all’intervento di Mediaset Premium S.p.A.:

1. in via pregiudiziale rito, dichiarare inammissibile l’atto di intervento proposto da Mediaset Premium S.p.A. il 28 gennaio 2019, accogliendo (ove occorra) le conclusioni già rassegnate da Vivendi S.E. nei confronti delle attrici che si riepilogano di seguito e si estendono alla stessa Mediaset Premium S.p.A.;

2. in via principale, accertare e dichiarare che l’accordo di scambio azionario sottoscritto in data 8 aprile 2016 non è divenuto efficace per mancato avveramento della condizione prevista dall’articolo 2.2;

3. in alternativa, annullare ex art. 1439 c.c. l’accordo di scambio azionario sottoscritto in data 8 aprile 2016;

4. in via subordinata, accertare e dichiarare l’avvenuto legittimo recesso di Vivendi S.E. dall’accordo di scambio azionario sottoscritto in data 8 aprile 2016;

5. in via ulteriormente subordinata, accertare e dichiarare la risoluzione e, comunque, l’inefficacia dell’accordo di scambio azionario sottoscritto in data 8 aprile 2016 nonché, ove occorra, risolverlo ai sensi dell’art. 1453 c.c. per fatto e colpa delle attrici;

6. in ogni caso, rigettare integralmente le domande formulate dalle attrici e da Mediaset Premium S.p.A. perché infondate in fatto e in diritto;

7. in via riconvenzionale, nella denegata ipotesi in cui l’intervento di Mediaset Premium S.p.A. fosse ritenuto ammissibile, condannare anche quest’ultima (solidalmente con le attrici) al risarcimento dei danni causati a Vivendi S.E. in misura pari a Euro 62.155.615,00 (o alla maggiore o inferiore misura ritenuta di giustizia o eventualmente liquidata in via equitativa), di cui (i) Euro 3.055.615,00 per costi sostenuti dalla stessa Vivendi S.E. durante la negoziazione e dopo la sottoscrizione del Contratto nonché (ii) Euro 59.100.000,00 per danni all’immagine e alla reputazione causati dalle attrici, oltre al pagamento di una somma ex art. 96, comma 3, c.p.c., più interessi e rivalutazione ex lege su ciascun importo liquidato.

In via istruttoria, si insiste nell’ammissione delle istanze articolate nelle memorie di Vivendi S.E. ex art. 183, comma 6, nn. 2-3, c.p.c. nonché nella memoria in replica all’atto di intervento di Mediaset Premium S.p.A., da intendersi qui integralmente richiamate e trascritte.

Con vittoria di spese, competenze e onorari del presente giudizio e del giudizio cautelare (oltre IVA e CPA come per legge).

 

MOTIVAZIONE
 

Con atto di citazione ritualmente notificato il 19 agosto 2016 Mediaset s.p.a. e RTI s.p.a., società quest’ultima interamente partecipata dalla prima, hanno convenuto in giudizio Vivendi s.a. per la manutenzione del contratto di scambio di partecipazioni azionarie sottoscritto l’8 aprile 2016, lamentando, in particolare, il grave inadempimento della società convenuta alle obbligazioni assunte con la stipulazione dell’accordo per far dichiarare l’avveramento, prima della scadenza del termine del 30 settembre 2016 pattuito per la conclusione delle operazioni di permuta delle partecipazioni sociali, della condizione sospensiva a cui era sottoposto.

A sostegno delle domande proposte parti attrici rappresentavano in fatto quanto segue.

L’accordo sottoscritto l’8 aprile 2016 prevedeva, nell’ottica della costituzione fra le parti di un sodalizio strategico a livello internazionale nel settore dei contenuti audiovisivi, l’impegno di Vivendi s.a. all’acquisto dell’intero capitale sociale della Mediaset Premium s.p.a., partecipata da RTI s.p.a., nonché di una partecipazione pari al 3,5% del capitale sociale di Mediaset s.p.a. in cambio dell’acquisto da parte di Mediaset s.p.a. e RTI s.p.a. della titolarità di una partecipazione complessivamente pari al 3,5% del capitale sociale di Vivendi s.a.

La permuta delle partecipazioni sociali doveva essere conclusa entro il 30 settembre 2016 con il c.d. closing, una volta verificatasi la condizione sospensiva prevista dalla clausola n. 2 dell’accordo, consistente nel rilascio da parte delle autorità preposte delle autorizzazioni necessarie all’attuazione dell’operazione secondo le disposizioni normative nazionali e sovranazionali, con specifico riferimento a quelle Antitrust.

Il contratto era espressamente definito come aleatorio in ordine alle oscillazioni di valore delle partecipazioni sociali oggetto della cessione, salva la specifica garanzia assunta dalla RTI s.p.a. alla clausola n. 1.1 dell’accordo in ordine al fatto che la posizione finanziaria netta di Mediaset Premium alla data del closing sarebbe stata pari ad almeno € 120 milioni, con conseguente assunzione da parte della RTI s.p.a. dell’obbligo di versare a Mediaset Premium la somma necessaria a consentirle l’osservanza del parametro o di pagare a Vivendi la differenza in denaro a titolo di adeguamento del corrispettivo della cessione delle azioni di Mediaset Premium.

L’accordo riconosceva a Vivendi il diritto ad effettuare una full due diligence, legale, fiscale, contabile, finanziaria ed economica su Mediaset Premium entro il 30 maggio 2016 con l’espressa previsione, alla clausola 3.1 che nessuna passività riscontrata all’esito le avrebbe consentito di sottrarsi all’esecuzione del contratto alle condizioni previste, a parte il caso di dolo o colpa grave, fatti salvi solo:

a) il diritto di recesso di Vivendi previsto al verificarsi delle sole ipotesi tassativamente elencate nella clausola n. 3 del contratto, tra cui, in particolare, l’emersione di una differenza determinata del numero di abbonati ai servizi di Mediaset Premium o dell’entità dei ricavi medi netti per abbonato (ARPU) nel periodo antecedente il 31.12.2015 da contestare entro il 15 maggio 2016;

b) le obbligazioni indennitarie assunte da RTI alla clausola 6.1 del contratto con riferimento alle garanzie descritte nell’allegato L1, tra cui in particolare, la garanzia di un determinato livello del numero degli abbonati e dell’ARPU nel periodo gennaio-marzo 2016, per la cui violazione era espressamente previsto solo il rimedio risarcitorio.

Nonostante la chiarezza delle previsioni contrattuali richiamate in ordine ai limiti delle garanzie riconosciute con riferimento alla situazione patrimoniale di Mediaset Premium, Vivendi con lettera del 12 maggio 2016, senza denunciare la violazione di alcuno dei parametri garantiti, aveva illegittimamente preteso la rinegoziazione dell’accordo sostenendo che, all’esito della due diligence, erano emerse significative differenze tra le previsioni di redditività e produttività per il periodo 2016/2020 contenute nel business plan di Mediaset Premium, posto a fondamento nel corso delle trattative della pattuita garanzia della posizione finanziaria netta, e le previsioni elaborate sulla base del livello eccezionale dei costi di promozione sopportati da Mediaset Premium durante il primo trimestre del 2016 per sostenere artificiosamente il numero complessivo di abbonati alla fine di marzo 2016.

Pur nella consapevolezza dell’estraneità all’ambito di rilevanza negoziale dei dati previsionali dei risultati economici attesi, costituenti l’alea tipica del contratto di acquisizione societaria, la società convenuta, a partire dal mese di maggio 2016, aveva disatteso deliberatamente gli obblighi specificamente assunti nell’accordo preliminare ed aveva iniziato a comportarsi in modo tale da

a) ostacolare l’avveramento della condizione sospensiva “bloccando” la notifica alla Commissione Europea ai sensi dell’art. 4.2 del regolamento Ce n. 139/2004, per il rilascio dell’autorizzazione dell’Antitrust UE, che secondo le previsioni dell’accordo avrebbe dovuto essere eseguita entro il 30 maggio 2016, con il pretesto di inesistenti trattative fra le parti per il mutamento della piattaforma dell’accordo, come emergeva dalla lettera di Vivendi dell’11 luglio 2016;

b) violare i doveri generali di buona fede in pendenza della condizione e gli obblighi specifici assunti alla clausola 5.1. con riferimento alla gestione interinale di Mediaset Premium, ignorando volutamente le richieste di approvazione di importanti atti di gestione e finendo con il rifiutare qualsiasi collaborazione rispetto all’interim management con la lettera del 7 luglio 2016.

La società convenuta, aveva, infine, formulato con la lettera del 25 luglio 2016 un’inaccettabile proposta contrattuale alternativa per superare “lo stallo” da lei stessa creato con riferimento all’accordo del 8 aprile 2016, così manifestando definitivamente la volontà di non adempiere.

Nella situazione descritta le società attrici invocavano la fictio iuris di avveramento della condizione sospensiva, ai sensi dell’art. 1359 c.c., essendo il difetto dell’autorizzazione dell’Autorità Antitrust UE imputabile all’inadempimento della convenuta alle specifiche obbligazioni assunte con l’accordo per favorire il verificarsi della condizione e chiedevano, con una serie articolata di domande, previo accertamento dell’intervenuto avveramento della condizione, l’esecuzione dello scambio delle partecipazioni azionarie come previsto nell’accordo, anche ai sensi dell’art. 2932 c.c.

In via subordinata chiedevano la condanna della società convenuta all’adempimento degli obblighi di condotta relativi alla procedura per il rilascio dell’autorizzazione antitrust e degli obblighi di collaborazione per la gestione interinale di Mediaset Premium a pena del pagamento della somma di € 10 milioni per ogni giorno di ritardo, ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c., nonché la condanna a fare tutto quanto necessario a determinare l’effetto traslativo delle azioni oggetto del contratto a pena del pagamento della somma di € 10 milioni per ogni giorno di ritardo, ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c.

Chiedevano, infine, il risarcimento del danno derivato all’organizzazione dell’attività di impresa dell’intero Gruppo Mediaset per l’incertezza sul destino della società target dovuta al ritardo nell’adempimento dell’accordo, mediante pagamento della somma di € 50 milioni per ogni mese di ritardo a far tempo dal 25 luglio 2016.

Successivamente, prima dell’udienza fissata per la trattazione, le società attrici depositavano, il 5 ottobre 2016, un ricorso per sequestro giudiziario delle azioni proprie di Vivendi fino a concorrenza del 3,5% del capitale sociale, adducendo il rischio che potessero essere alienate nel tempo necessario all’adozione dei provvedimenti traslativi richiesti nel giudizio di merito e che Vivendi potesse non disporre della liquidità necessaria al loro riacquisto sul mercato nella quantità contrattualmente prevista, pari ad un valore di circa 900 milioni di euro, ma all’esito delle difese svolte dalla società convenuta rinunciavano alla domanda cautelare.

Nel costituirsi per il giudizio di merito Vivendi s.a., società francese quotata in borsa al vertice di uno dei più grandi gruppi industriali al mondo nel settore dei media, ha sostenuto che l’accordo con Mediaset s.p.a. e RTI s.p.a. del 8 aprile 2016 era volto a creare un’alleanza strategica di lungo termine fra i due gruppi nell’ambito del mercato dei contenuti audio visivi in vista della creazione di un primario operatore nel settore dei media a livello europeo ma che le società attrici, tacendo maliziosamente nel corso delle trattative l’effettiva situazione di difficoltà economica in cui versava Mediaset Premium, avevano solo tentato di “rifilarle” una società che non era in condizioni di produrre utili e di operare sul mercato.

Riferiva, in particolare, che nella fase della trattativa che aveva preceduto l’accordo non le era stato consentito di effettuare la due diligence su Mediaset Premium per espressa previsione contrattuale e che le erano state centellinate le informazioni sul numero di abbonati e sull’entità del ricavo medio per abbonato (c.d. ARPU), cruciali per la valutazione dell’attendibilità del business plan relativo al quadriennio 2016-2020, consegnatole soltanto il 3 marzo 2016 e, poi, posto a fondamento della negoziazione delle clausole di garanzia ed in particolare della clausola relativa all’impegno di RTI di assicurare al momento del closing una posizione finanziaria netta di Mediaset Premium pari a 120 milioni di euro.

Le previsioni del business plan esaminato nel corso delle trattative pronosticavano, infatti, un significativo livello di perdite negli anni 2016 e 2017, che la clausola di garanzia della posizione finanziaria netta tendeva a neutralizzare, e al contempo un costante e progressivo aumento dei ricavi medi per abbonato e del numero di abbonati nel periodo 2016-2020 con il raggiungimento del pareggio tra costi e ricavi già nell’anno 2018, su cui aveva fatto affidamento nella stima del valore della partecipazione sociale.

Solo nel corso della due diligence, condotta con il supporto della Deloitte Finance France s.a.s., erano emerse anomalie sorprendenti sull’andamento dei parametri fondamentali, deliberatamente taciute dalle società attrice nel corso delle trattative, costituite:

- dall’eccezionale numero di oltre 90.000 recessi di abbonati a dicembre 2015 per effetto dell’annuncio nel mese di novembre 2015 dell’aumento del prezzo a partire da gennaio 2016;

- dalle promozioni straordinarie abnormi e senza precedenti sul prezzo degli abbonamenti che avevano raggiunto il livello record di oltre 41 milioni di euro, quattro volte superiore a quello dell’anno precedente, lanciate nel primo trimestre 2016 per tentare di contenere l’esodo e sostenere artificiosamente il numero di abbonati;

- dalla perdita di oltre 50.000 abbonati, nel solo mese di gennaio 2016, e dal crollo del ricavo medio per ogni nuovo abbonato sino a 15 euro al mese, verificatosi nel primo trimestre 2016.

La due diligence aveva, in sostanza, evidenziato che Mediaset Premium aveva ricevuto nel mese di dicembre 2015 oltre 90.000 richieste di recesso dai propri abbonati in fuga dal prospettato aumento del corrispettivo che l’avevano costretta a lanciare promozioni straordinarie quattro volte più onerose di quelle degli anni precedenti per bloccare l’emorragia ed evitare, prima della conclusione del contratto, l’incremento ulteriore delle perdite per la mancata copertura dei costi fissi elevati, connessi all’acquisto dei diritti per la trasmissione dei contenuti audiovisivi ed in particolare per la trasmissione del campionato di calcio di serie A e della Champions League.

L’occultamento dei dati fondamentali emersi a seguito della due diligence aveva impedito a Vivendi di percepire, prima della sottoscrizione dell’accordo, che l’evoluzione positiva dell’andamento di Mediaset Premium prospettata nel business plan era irrealizzabile e che la società era esposta a produrre in futuro perdite gravissime mentre aveva consentito alle società attrici di “gonfiare” il numero di abbonati e l’ARPU nel breve periodo in modo da mantenerli nelle soglie contrattualmente previste ai fini dell’esercizio del diritto di recesso dell’acquirente.

Appreso l’esito della due diligence Vivendi, con lettera inviata il 12 maggio 2016, aveva immediatamente proposto la rinegoziazione dell’accordo ed aveva, quindi, continuato a tentare di comporre le divergenze proponendo, con la lettera del 25 luglio 2016, una diversa struttura dell’operazione, sino a che Mediaset aveva emesso un fuorviate comunicato al mercato finanziario, il 26 luglio 2016, con cui negava le negoziazioni e le attribuiva l’intento di non onorare il contratto stipulato.

La campagna denigratoria di stampa, avviata dalle società attrici fornendo ricostruzioni dei fatti gravemente distorte ed imputandole la situazione di stallo di Mediaset Premium, le iniziative giudiziarie successivamente da esse intraprese e culminate nell’avvio del procedimento per sequestro giudiziario delle azioni con ricorso del 5 ottobre 2016, avevano fatto naufragare ogni possibilità di composizione amichevole della controversia, così che il 19 ottobre 2016 aveva pubblicamente preso atto del fallimento dell’operazione.

Sosteneva, comunque, di aver esattamente adempiuto alle obbligazioni assunte con l’accordo preliminare ed in particolare all’obbligo di acquisire l’autorizzazione dell’Agcom, rilasciata il 7 luglio 2016, e all’obbligo di avviare la procedura per il rilascio dell’autorizzazione dell’Antitrust UE da parte della Commissione europea, poi, bloccata dopo l’esito disastroso della due diligence e dopo la lettera del 1° luglio 2016 di Mediaset che sembrava aprire la prospettiva di un possibile negoziato su un’operazione diversamente strutturata.

Negava di esser contrattualmente tenuta a cooperare alla gestione interinale di Mediaset Premium in mancanza nel contratto di una specifica disciplina del c.d. interim management, essendo previsto solo l’obbligo di RTI di garantire a Vivendi la prudente gestione della società e di evitare l’adozione di misure straordinarie pregiudizievoli, nel periodo tra la sottoscrizione dell’accordo preliminare ed il closing.

Sosteneva, comunque, di aver collaborato con le società attrici, fornendo puntuale riscontro alle comunicazioni riguardanti la gestione interinale di Mediaset Premium, ma che, non appena erano emerse le anomalie evidenziate dalla due diligence ed iniziate le discussioni per la ricerca di alternative negoziali, aveva inequivocabilmente ribadito, con lettera del 7 luglio 2016, che Mediaset Premium era libera di assumere le sue decisioni nel miglior interesse della società.

Riferiva, infine, di aver proceduto progressivamente all’acquisto sul mercato delle azioni Mediaset giungendo a detenere, il 22 dicembre 2016, il 28,80% del suo capitale sociale, al prezzo medio di € 3,69 ad azione, a fronte di un prezzo di borsa delle azioni Mediaset il 7 aprile 2016 pari ad € 3,32, così da smentire le notizie diffamatorie, nel frattempo diffuse dalle società attrici sulla stampa, che inserivano la violazione dell’accordo nel contesto del disegno più ampio di provocare il crollo del valore del titolo Mediaset per procedere ad una vera e propria scalata ostile.

Nella situazione descritta chiedeva, innanzitutto, la declaratoria di inefficacia dell’accordo dell’8 aprile 2016 per il mancato avveramento della condizione sospensiva prevista dalla clausola n. 2, non essendo applicabile la finzione di avveramento di cui all’art. 1359 c.c. alla condicio iuris dell’autorizzazione amministrativa dell’operazione oggetto del contratto da parte della Commissione UE, presupposto imprescindibile per il trasferimento delle azioni, con conseguente impossibilità di esecuzione del contratto in forma specifica.

In alternativa chiedeva la pronuncia di annullamento dell’accordo per dolo, ai sensi dell’art. 1439 c.c., avendo le società attrice deliberatamente occultato dati rilevanti ai fini della valutazione di attendibilità del business plan e fornito, così, una rappresentazione alterata dei presupposti di fatto rilevanti per la valutazione della convenienza dell’operazione, atta a viziare il processo formativo la sua volontà negoziale, posto che, in assenza delle descritte omissioni dolose, avrebbe potuto negoziare diversamente le clausole contrattuali.

In via subordinata chiedeva l’accertamento della legittimità del recesso dall’accordo di scambio azionario sulla base della clausola 3.1 ultimo paragrafo che dichiarava di esercitare con la comparsa di risposta, in relazione alle gravi circostanze occultate con dolo, emerse dalla due diligence o ai sensi della clausola 3.2, essendo la certificazione di Deloitte in ordine al riscontro dell’osservanza delle soglie pattuite sulla consistenza del numero di abbonati e dell’ARPU al 31 dicembre 2015, comprensiva anche dei 90.000 abbonati che avevano già richiesto di recedere.

In via ulteriormente subordinata chiedeva la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1453 c.c. per inadempimento delle società attrici alle clausole di garanzia che imponevano la gestione prudente di Mediaset Premium prima del closing e il dovere di fornire informazioni accurate e non fuorvianti, violate con il lancio di promozioni straordinarie gravemente pregiudizievoli della redditività dell’impresa, deliberatamente occultate.

Chiedeva, infine, il risarcimento del danno all’immagine e alla reputazione commerciale subito per effetto della campagna denigratoria mediatica scatenata nei suoi confronti dalle società attrici e la loro condanna ai sensi dell’art. 96 comma 3 c.p.c. per la proposizione temeraria del ricorso per sequestro giudiziario.

Nel frattempo, con atto di citazione notificato il 23 agosto 2016, la Fininvest s.p.a., socia di maggioranza di Mediaset s.p.a. con una partecipazione del 34,73% del capitale sociale, aveva convenuto in giudizio Vivendi S.A. per ottenere, previo accertamento dell’avveramento della condizione sospensiva, in primo luogo, l’adempimento degli impegni assunti dalla società convenuta con l’accordo dell’8 aprile 2016 e con il patto parasociale allegato, finalizzati al compimento di un’operazione di enorme rilevanza strategica in quanto volta alla costituzione di un’alleanza di livello europeo tra la società controllata Mediaset e Vivendi, e, quindi, il risarcimento del danno subito in conseguenza dell’inattuazione del programma negoziale.

Riferiva, in particolare, che l’essenza dell’operazione strategica era costituita:

a) dall’accordo sottoscritto fra Mediaset s.p.a. e RTI con Vivendi, contenente l’impegno allo scambio paritetico di partecipazioni tra Mediaset e Vivendi pari al 3,5% con l’acquisto da parte di Vivendi anche dell’intera partecipazione di RTI in Mediaset Premium, sottoposto alla condizione sospensiva del rilascio di tutte le autorizzazioni necessarie al completamento delle operazioni di scambio azionario da parte delle autorità nazionali e sovrannazionali competenti;

b) dal patto parasociale di cui all’allegato N dell’accordo dell’8 aprile 2016 che Fininvest e Vivendi avrebbero dovuto sottoscrivere al momento della stipulazione del contratto definitivo di scambio azionario programmato nell’accordo dell’8 aprile 2016, per mantenere le proprie partecipazioni in Mediaset al di sotto delle soglie dell’OPA obbligatoria da consolidamento e stabilizzare gli assetti proprietari in Mediaset, garantendo a Finivest la conservazione della propria posizione di controllo. Il patto parasociale prevedeva, in estrema sintesi,

- il divieto per Vivendi, nel primo anno dalla sottoscrizione del patto, di acquistare direttamente o indirettamente ulteriori azioni di Mediaset s.p.a. con “blocco totale” della facoltà di acquisto;

- il divieto per Vivendi, nel secondo e terzo anno dalla stipulazione del patto, di acquistare direttamente o indirettamente ulteriori azioni di Mediaset s.p.a. che la portassero a possedere una partecipazione complessiva superiore al 5% del capitale di Mediaset con la previsione di un “tetto complessivo” quale limite alla facoltà di acquisto;

- la facoltà per Fininvest di effettuare direttamente o indirettamente ulteriori acquisti di azioni Mediaset nei limiti previsti dalle norme applicabili in materia di OPA obbligatoria.

La società convenuta si era resa gravemente inadempiente agli obblighi assunti con la stipulazione dell’accordo dell’8 aprile 2016, manifestando il 25 luglio 2016 l’intenzione di non adempiere attraverso la proposizione di un’offerta di rinegoziazione mirante a ridurre al 20% l’acquisizione delle partecipazioni in Mediaset Premium per ottenere invece il trasferimento del 15% del capitale di Mediaset, dopo aver “bloccato” la procedura avviata per il rilascio dell’autorizzazione antitrust UE da parte della commissione europea con il pretesto della pendenza di trattative per la rinegoziazione e l’alibi dell’inattendibilità del business plan di Mediaset Premium.

La clamorosa rottura, consumatasi il 25 luglio 2016, aveva svelato l’intento di Vivendi “di mettere le mani” sul gruppo Mediaset ed aveva costretto Fininvest e Mediaset a darne notizia al mercato in attuazione degli obblighi di trasparenza gravanti sulle società quotate in borsa, con un comunicato del 26 luglio 2016, a cui era seguito un crollo vertiginoso in borsa del valore del titolo Mediaset che aveva subito una perdita immediata del 13,87%, aggravata di un ulteriore 8% a seguito del comunicato di Vivendi del 29 luglio 2016 relativo all’inattendibilità del business plan di Mediaset Premium, assestatasi solo il 2 agosto ad un livello negativo del meno 20%.

Nella situazione descritta la Fininvest s.p.a. sosteneva, innanzitutto, doversi ritenere avverata la condizione sospensiva mancata per effetto dell’inadempimento di Vivendi all’obbligo di completare il procedimento di notificazione all’autorità antitrust europea, ai sensi dell’art. 1359 c.c., con la conseguenza dell’immediata efficacia traslativa dello scambio azionario tra Mediaset e Vivendi, programmato nell’accordo dell’8 aprile 2016, in forza del principio consensualistico e della piena efficacia vincolante fra Fininvest e Vivendi del patto parasociale.

In via subordinata, nell’ipotesi in cui il patto parasociale, non dovesse essere ritenuto immediatamente vincolate doveva ritenersi sorto il preciso obbligo per Vivendi di sottoscriverlo, con la conseguenza, in ogni caso, della possibilità di pretendere l’adempimento delle obbligazioni contrattuali rimaste disattese.

Sosteneva, comunque, di aver già subito per il comportamento inadempiente di Vivendi e la risonanza sui mercati della notizia della “rottura” dell’accordo, configuranti una condotta dolosamente preordinata alla lesione dei suoi interessi in violazione del principio del neminem ledere,

- il danno al valore di borsa delle azioni Mediaset possedute, derivato dal crollo in borsa del titolo Mediaset seguito alla diffusione sulla stampa il 26 luglio 2016 del rifiuto di Vivendi di portare a termine l’operazione, stimabile in € 270.824.706 oltre che nel mancato incremento che il valore di borsa dello stesso pacchetto azionario avrebbe realizzato se l’operazione fosse stata portata a compimento;

- il danno ai processi decisionali e alla pianificazione strategica, costituenti beni primari per una holding al vertice di governo di un grande gruppo imprenditoriale, consistente nella lesione del diritto a programmare le proprie iniziative economiche in settori strategici per il Paese, cagionato attraverso la grave situazione di stallo ed incertezza creata dal comportamento illecito di Vivendi su un’operazione strategica per il gruppo;

- il danno alla reputazione procurato con l’insinuazione nell’opinione pubblica del sospetto che possa aver tenuto comportamenti contrattuali scorretti attraverso la propalazione da parte della società convenuta di notizie non veritiere in ordine al fatto che sarebbe stata vittima di un raggiro;

pregiudizi, questi ultimi, da liquidarsi in via equitativa e stimabili in complessivi € 300.000.000, avuto riguardo alla gravità dell’offesa di beni primari di rango costituzionale, all’intensità del dolo e alla qualità dei soggetti coinvolti, operanti in mercati regolamentati.

La società attrice Fininvest chiedeva, pertanto, con riferimento alla domanda di adempimento contrattuale, in via principale, l’accertamento della verificazione della condizione sospensiva ai sensi dell’art. 1359 c.c. e dell’avvenuto trasferimento della titolarità delle azioni Mediaset in capo a Vivendi come previsto dall’accordo di scambio azionario dell’8 aprile 2016 in forza del principio consensualistico, con conseguente condanna di Vivendi ad adempiere a tutte le obbligazioni contenute nel patto parasociale tra Fininvest e Vivendi, di cui all’allegato N da ritenersi pienamente efficace e vincolate, pena il pagamento, ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c., della somma di € 20 milioni per ogni inosservanza della condanna.

In via subordinata chiedeva la condanna di Vivendi all’adempimento dell’obbligo di sottoscrivere con lei il patto parasociale, pena il pagamento, ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c., della somma di € 10 milioni per ogni giorno di ritardo.

Con riferimento al danno prospettato chiedeva la condanna della società convenuta al risarcimento mediante pagamento della somma di complessivi € 570.824.706.

La società convenuta Vivendi si costituiva anche nel giudizio promosso da Fininvest ed eccepiva, preliminarmente, il difetto di legittimazione attiva di Fininvest sia con riferimento alla domanda di adempimento del patto parasociale, mai sottoscritto e costituente mero allegato ad un accordo stipulato da Vivendi con Mediaset e RTI di cui Fininvest non era parte, sia con riferimento alla domanda di risarcimento del danno al valore di borsa delle azioni Mediaset possedute da Fininvest, relativa ad un danno riflesso rispetto al pregiudizio subito dal patrimonio sociale, risarcibile solo alla società.

Nel merito contestava, comunque, l’esistenza di un patto parasociale vincolante con la Fininvest che non era mai stato sottoscritto, in quanto funzionalmente collegato all’esecuzione di un contratto condizionato inefficace per il mancato avveramento della condizione sospensiva del rilascio dell’autorizzazione antitrust, rispetto alla quale non potrebbe operare la fictio iuris di avveramento prevista dall’art. 1359 c.c., e che non potrebbe, quindi, neanche costituire fonte dell’obbligo a sottoscriverlo.

Negava, in ogni caso, la configurabilità di un suo obbligo a sottoscrivere il patto parasociale nei confronti della Fininvest, rimasta completamente estranea all’accordo dell’8 aprile 2016 a cui il patto parasociale era collegato, concluso solo con Mediaset e RTI, comunque, da ritenersi invalido perché passibile di annullamento per dolo ed inefficace per il mancato avveramento della condizione, con conseguente inesistenza del diritto di Fininvest di chiedere la condanna di Vivendi a sottoscrivere e ad eseguire il patto parasociale.

Nessun diritto alla stipulazione del patto parasociale veniva attribuito alla Fininvest dall’art. 8 dell’accordo del 8 aprile 2016 ove era previsto semplicemente che al closing Vivendi e Finivest avrebbero sottoscritto il patto parasociale nella forma concordata come da allegato N), né dal contenuto del testo concordato del patto emergeva alcunché in ordine alla sua pretesa funzione di garantire a Fininvest la conservazione della propria posizione di controllo in Mediaset.

Lo scopo del patto parasociale era, infatti, solo quello di scongiurare il pericolo dell’OPA, come previsto espressamente dalla lettera C) delle premesse, posto che ove fosse stata conclusa l’operazione programmata con l’accordo dell’8 aprile 2016, Fininvest e Vivendi avrebbero potuto essere considerate “in concerto” ai sensi dell’art. 101 bis del TUF e di conseguenza essere obbligate a promuovere un’offerta pubblica di acquisto obbligatoria su Mediaset.

Contestava, infine, la domanda di esecuzione coattiva del patto parasociale che, anche ove fosse stato sottoscritto, avrebbe avuto efficacia meramente obbligatoria con la conseguenza che la sua violazione avrebbe potuto comportare solo il diritto al risarcimento del danno.

Quanto alle domande risarcitorie contestava la configurabilità nella fattispecie descritta di una sua responsabilità extracontrattuale nei confronti della Fininvest, sostenendo di aver legittimamente rifiutato di portare a compimento l’operazione in considerazione della gravità della situazione di Mediaset Premium, emersa dalla due diligence e occultata con dolo da Mediaset ed RTI al momento della stipulazione dell’accordo preliminare dell’8 aprile 2016.

Contestava, comunque, il danno lamentato da Fininvest per la riduzione del valore delle proprie azioni Mediaset derivato dal crollo in borsa del titolo, rilevando che dopo il 2 agosto 2016 il valore del titolo era progressivamente risalito fino a raggiungere il 21 dicembre 2016 il valore massimo di € 4,6566 che avrebbe assicurato a Fininvest un guardato di 294 milioni di euro.

La temporanea riduzione del valore di borsa delle azioni Mediaset non sarebbe, peraltro, causalmente riconducibile alla rottura dell’accordo ed al preteso inadempimento di Vivendi ma alla campagna mediatica fuorviante, innescata dai due aggressivi comunicati stampa di Mediaset e Fininvest del 26 aprile 2016, contenenti l’annuncio dell’arresto dell’operazione con una ricostruzione dei fatti gravemente distorta oltre che alla comunicazione al mercato, il 28 luglio 2016, dei risultati economici e finanziari negativi del gruppo Mediaset che, al 30 giugno 2016, evidenziava a livello consolidato, un risultato operativo negativo pari a meno 52,8 milioni di euro.

Con riferimento al danno ai processi decisionali e alla reputazione evidenziava l’estrema genericità delle allegazioni della società attrice che non aveva chiarito su quali processi decisionali o iniziative economiche specifiche avrebbe inciso la mancata esecuzione dell’accordo e come potesse aver avuto un impatto pregiudizievole sull’immagine di Fininvest la mancata attuazione di impegni sottoscritti da Mediaset e RTI.

Lamentava, piuttosto, di aver subito danni dalla campagna diffamatoria avviata da Fininvest nei suoi confronti e culminata con la presentazione di un esposto in Procura per manipolazione del mercato, il cui contenuto era stato fatto trapelare agli organi di stampa attraverso la circolazione della falsa notizia, secondo cui Vivendi avrebbe dolosamente disatteso gli impegni assunti con l’accordo del 26 luglio 2016 per far crollare il valore del titolo Mediaset in borsa e, poi, acquistarlo a prezzo di sconto nel mese di dicembre 2016, smentita dalla realtà dei dati da cui emergeva, invece, chiaramente che il titolo era stato acquistato a prezzo più alto di quello che aveva il giorno prima della sottoscrizione dell’accordo.

Chiedeva, pertanto, il rigetto di tutte le domande proposte da Fininvest nei suoi confronti ed in via riconvenzionale la condanna al risarcimento del danno subito per effetto della lesione della sua reputazione commerciale.

All’udienza di trattazione del 21 marzo 2017 il giudice istruttore disponeva, in assenza di contestazioni fra le parti, la riunione delle due controversie e l’avvio del procedimento di mediazione sulla domanda riconvenzionale relativa al risarcimento del danno da lesione della reputazione commerciale.

Nel corso della stessa udienza la difesa della Fininvest formulava una domanda nuova conseguente alle difese della società convenuta chiedendo “in via ulteriormente subordinata, previo accertamento della sussistenza in capo a VIVENDI di obblighi di protezione, correttezza e buona fede nei confronti di FININVEST, discendenti dal contatto sociale qualificato tra le medesime parti, o in alternativa, dalla particolare struttura del contratto 8.4.16, accertare e dichiarare che detti obblighi siano stati violati da VIVENDI attraverso l’acquisto di una partecipazione prossima al 30% di Mediaset e, per l’effetto, condannare la stessa Vivendi al risarcimento di tutti i danni.”

Ulteriore nuova domanda risarcitoria veniva, quindi, proposta anche dalla difesa di Mediaset chiedendo il ristoro anche del danno conseguente alla “scalata” al titolo Mediaset da parte della società convenuta.

La difesa di Vivendi eccepiva l’inammissibilità delle domande nuove che, lungi dal costituire conseguenza delle sue eccezioni, erano fondate sul nuovo fatto costitutivo della “scalata ostile” che, mutando i termini oggettivi della controversia aveva dato luogo ad una vera e propria mutatio libelli non consentita dal sistema delle preclusioni desumibile dalle previsioni dell’art. 183 comma 5 e 6 c.p.c.

Dopo il fallimento del tentativo di mediazione del conflitto, le parti chiedevano ed ottenevano dal giudice istruttore la concessione dei termini per il deposito delle memorie ai sensi dell’art. 183 comma 6 c.p.c. e nella prima memoria di trattazione precisavano e modificavano le loro domande.

Nel giudizio promosso da Mediaset e RTI nei confronti di Vivendi le parti precisavano, in particolare, con la prima memoria di trattazione, le rispettive domande risarcitorie.

Le società attrici Mediaset ed RTI chiedevano il risarcimento del danno corrispondente ai costi per consulenze legali e advisory sostenute per la formazione del contratto, pari complessivamente a 3 milioni di euro,

- del danno corrispondente ai costi finanziari sostenuti per circa 8,5 milioni di euro da Mediaset per estinguere anticipatamente il finanziamento di 400 milioni, acceso presso Mediobanca nel 2011,

- del danno corrispondente al costo di circa 30 milioni di euro sostenuto da Mediaset per la sottoscrizione di strumenti finanziari mirati alla copertura del rischio di variazione del valore di borsa dei titoli Vivendi,

- del danno stimabile in 60 milioni di euro subito da RTI per il rinnovo fino al 31 luglio 2019 imposto a Mediaset Premium da Vivendi nel corso della gestione interinale dei contratti di distribuzione per i canali Investigation Discovery, Eurosport 1 e Eurosport 2 e Disney Channel, Disney Channel + 1 e Playhouse Channel,

- del danno stimabile in 40 milioni di euro subito da RTI per la perdita di nuove acquisizioni di clientela derivata dall’attuazione della strategia commerciale imposta a Mediaset Premium da Vivendi nel corso della gestione interinale,

- del danno stimabile in 450 milioni di euro subito da RTI per la perdita di valore della sua partecipazione totalitaria in Mediaset Premium a seguito delle pubbliche dichiarazioni di Vivendi in merito alla credibilità del suo business plan che avevano determinato una riduzione di carattere permanente del prezzo realizzabile dalla cessione della partecipazione e compromesso il potere negoziale di RTI,

ed, infine, del danno stimabile in 120 milioni di euro, subito da Mediaset, come società quotata in borsa dall’ingiusta campagna denigratoria avviata da Vivendi sin dal mese di luglio 2016.

Anche la società convenuta, nella prima memoria di trattazione, precisava la domanda riconvenzionale di risarcimento del danno, chiedendo la condanna delle società attrici Mediaset e RTI al rimborso dei costi sostenuti durante le negoziazioni e dopo la sottoscrizione del contratto per 3,1 milioni di euro, al ristoro del pregiudizio subito, ai sensi dell’art. 1440 c.c., per non aver potuto, in conseguenza del dolo delle società attrici, negoziare la clausola di garanzia relativa alla posizione finanziaria netta di Mediaset Premium al closing per almeno euro 1,2 miliardi in considerazione di quanto emerso all’esito della due diligence, ed infine all’integrale risarcimento del danno inferto alla sua immagine e reputazione commerciale dalla campagna di stampa diffamatoria attuata dalle società attrici commisurato al costo di una “campagna riparatoria”, stimato in almeno 60 milioni di euro.

Nel giudizio promosso da Fininvest nei confronti di Vivendi (RG n. 47575/2016) con la prima memoria di trattazione, la società attrice procedeva, innanzitutto, alla precisazione della domanda nuova proposta all’udienza di trattazione del 21 marzo 2017, evidenziando che si tratterebbe di una domanda aggiuntiva e non sostitutiva delle domande già formulate nell’atto di citazione, costituente una reazione alle difese svolte da Vivendi nella comparsa di risposta, laddove aveva sostenuto l’inesistenza di qualsiasi accordo tra loro, essendo il patto parasociale un mero allegato non sottoscritto dell’accordo stipulato tra Mediaset e RTI da un lato e Vivendi dall’altro a cui Fininvest era rimasta estranea.

La difesa in questione aveva, infatti, comportato la necessità di dedurre la violazione degli obblighi di correttezza protezione e buona fede nei confronti di Fininvest, gravanti su Vivendi per effetto del contatto sociale qualificato derivato dalla negoziazione della bozza del patto parasociale o, comunque, per la natura di contratto con effetti protettivi dell’interesse del terzo Fininvest alla conservazione della posizione di controllo in Mediaset dell’accordo dell’8 aprile 2016, perpetrata attraverso l’acquisto di una partecipazione prossima al 30% di Mediaset, attuato nel corso della scalata ostile del mese di dicembre 2016 che le aveva procurato un danno quantificabile in un miliardo di euro.

Precisava, in particolare, con riguardo al danno connesso alla scalata ostile, di aver subito l’enorme pregiudizio economico in questione per la paralisi dei processi decisionali derivata dalla necessità di condividere il controllo con un socio rilevante antagonista come Vivendi, per essere stata costretta ad aumentare la propria partecipazione in Mediaset sino al 38,2% con l’acquisto di ulteriori azioni a scopo difensivo della posizione di controllo, costato 154 milioni di euro, nonché per aver subito la perdita di liquidità del suo investimento in Mediaset dovuta al consistente drenaggio di flottante derivato dalla manovra scorretta di Vivendi.

La società attrice procedeva, quindi, anche alla modificazione delle domande di adempimento contrattuale svolte in atto di citazione deducendo il nuovo fatto di inadempimento di Vivendi agli obblighi negoziali assunti con l’accordo ed il patto parasociale, perpetrato attraverso la scalata ostile e chiedendo, sia nell’ipotesi di ritenuta efficacia vincolante immediata del patto parasociale, sia nell’ipotesi di necessità della condanna di Vivendi alla sua sottoscrizione, la condanna della società convenuta alla dismissione della propria partecipazione in Mediaset, pari al 28,8% del capitale sociale e al 29,9 % dei diritti di voto, prima dell’adozione dei provvedimenti necessari all’esecuzione coattiva delle obbligazioni assunte con il patto parasociale.

La società attrice precisava, infine, la domanda risarcitoria originariamente proposta nell’atto di citazione con riferimento al pregiudizio subito per il rifiuto di Vivendi di portare a compimento l’operazione ed alla campagna denigratoria e chiedeva la condanna della società convenuta al risarcimento del danno costituito dalla perdita di valore della sua partecipazione in Mediaset, da determinarsi con ricorso ai c.d. dati di consensus elaborati dagli analisti di borsa e tenendo conto dell’ulteriore pregiudizio relativo al premio di controllo, oltre che al risarcimento del danno costituito dalla perdita della fase upside del mercato borsistico FTSEMIB, avendole la condotta di Vivendi impedito di beneficiare della fase di forte rialzo in corso.

All’udienza del 4 dicembre 2018 fissata per la discussione sulle istanze istruttorie, le società attrici nei due giudizi riuniti, Mediaset RTI e Fininvest, dichiaravano di aver perso l’interesse all’esecuzione dell’accordo dell’8 aprile 2016 e del patto parasociale accessorio e modificavano le diverse domande di adempimento in domanda di risoluzione del contratto e del patto parasociale per inadempimento imputabile alla società convenuta, ai sensi dell’art. 1453 c.c., ribadendo la richiesta di risarcimento del danno come dedotto nei precedenti scritti difensivi da valutare, però, nella prospettiva dell’inadempimento definitivo del contratto.

Alla stessa udienza Mediaset e RTI introducevano una ulteriore nuova domanda per “accertare e dichiarare (a) la violazione da parte di Vivendi del divieto di acquisto di azioni di Mediaset sulla stessa gravante per effetto del Contratto; e/o (b) la nullità degli acquisti di azioni di Mediaset per effetto dell’accertata violazione da parte di Vivendi dell’art. 43 Tusmar; conseguentemente, condannare Vivendi a risarcire a Mediaset e RTI tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali, subiti e subendi, nella misura che verrà meglio quantificata in corso di causa, se del caso anche in via equitativa dal Giudice, ai sensi dell’art. 1226”.

Con atto depositato in data 28 gennaio 2019 Mediaset Premium spiegava intervento volontario ai sensi dell’art. 105 c.p.c. sostenendo che il mutamento da parte di Mediaset e RTI dell’originaria domanda di adempimento in risoluzione del contratto dell’8 aprile 2016, aveva generato il suo interesse a svolgere la domanda di risarcimento del danno subito sia a titolo contrattuale, sul paradigma della responsabilità da contatto sociale, sia a titolo extracontrattuale, quale soggetto terzo leso dal grave inadempimento di Vivendi, che aveva danneggiato non solo le altre parti contraenti dell’accordo di scambio azionario, ma anche la società target dell’operazione, sicuramente interessata alla sua esecuzione.

Chiedeva, quindi, il risarcimento del danno di euro 58.479.000,00, subito a causa del rinnovo, imposto da Vivendi, dell’accordo di distribuzione dei canali Investigation Discovery, Eurosport 1 e Eurosport 2, del danno di euro 41.382.448,71, subito a causa della perdita del numero di abbonati generata dalla condotta di Vivendi durante l’interim management e del danno di euro 450.155.555,56, subito per la perdita di valore della propria attività e del proprio business, pregiudizi già ampiamente descritti nella prima memoria di trattazione delle società attrici come voci di danno ricostruite dall’angolo visuale della RTI, socia unica della terza intervenuta, da liquidare a favore di uno solo dei due soggetti aventi diritto.

La società convenuta eccepiva, in particolare, l’inammissibilità e “l’abusività” dell’intervento del terzo spiegato da Mediaset Premium, dopo l’approvazione del progetto di fusione per incorporazione nella società controllante totalitaria RTI divenuto efficace in data 26 marzo 2019, sfruttando la sola apparente autonomia soggettiva per avvantaggiarsi della posizione processuale privilegiata che l’ordinamento riserva al terzo nel consentirgli di svolgere domande nuove sino alla precisazione delle conclusioni, e così raggirare l’ineludibile eccezione di difetto di legittimazione attiva della RTI a far valere il danno riflesso alla sua partecipazione sociale in Mediaset Premium e le preclusioni già maturate per l’introduzione della domanda nuova diretta a far valere il danno subito dalla società controllata, nella sua veste di incorporante di Mediaset Premium.

Contestava, comunque, nel merito le domande proposte dalla terza intervenuta a cui estendeva la domanda riconvenzionale risarcitoria già svolta nei confronti delle società attrici.

La società convenuta, nella memoria autorizzata a seguito dell’avvenuto mutamento della domanda da adempimento in risoluzione del contratto da parte delle società attrici, eccepiva l’inammissibilità del rimedio risolutorio avverso un contratto mai divenuto efficace in conseguenza del mancato avveramento della condizione sospensiva.

Contestava, comunque, le pretese risarcitorie delle società attrici eccependo, ai sensi dell’art. 1223 c.c. e dell’art. 1227c.c., l’irrisarcibilità del pregiudizio derivato a Mediaset e RTI non dall’inattuazione del programma contrattuale ma dal comportamento delle stesse società attrici che avevano ex abrupto interrotto le discussioni in corso per la rinegoziazione del contratto dandone notizia al pubblico, nel tentativo di distogliere l’attenzione del mercato dai deludenti risultati economico-finanziari del gruppo Mediaset pubblicati quasi contestualmente.

Contestava, altresì, l’ammissibilità della domanda di risoluzione di un patto parasociale mai sottoscritto formulata da Fininvest nonché l’ammissibilità delle domande risarcitorie formulate da Fininvest con riferimento a pretese voci di danno fondate su fatti costitutivi diversi da quelli dell’originaria domanda di adempimento.

Con ordinanza del 29 luglio 2019 il giudice istruttore respingeva tutte le istanze istruttorie delle parti. In particolare, riteneva inammissibile la CTU richiesta dalle parti attrici Mediaset, RTI e della terza intervenuta Mediaset Premium per accertare se avessero o meno subito danno in relazione all’inadempimento lamentato, in quanto esplorativa e diretta a sollevarle dall’onere di provare i fatti posti a fondamento delle domande svolte, rimettendo, invece, al Collegio ogni valutazione sulla necessità di disporre la CTU richiesta per la valutazione del danno da scalata ostile, all’esito della soluzione delle questioni giuridiche sollevate dalle parti sulla natura della responsabilità invocata.

All’udienza del 22 settembre 2020 le parti precisavano le conclusioni chiedendo tutte la discussione orale della causa innanzi al Collegio, ai sensi dell’art. 275 c.p.c., a cui il giudice rimetteva le cause per la decisione con assegnazione alle parti dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e memorie di replica.

Dopo la scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica e prima dell’udienza dell’11 febbraio 2021 fissata dal Presidente per la discussione orale delle cause innanzi al Collegio, le società attrici Mediaset e RTI anche quale incorporante di Mediaset Premium, con istanza depositata il 1 febbraio 2021, chiedevano di essere rimesse in termini ai sensi dell’art. 153 comma 2 c.p.c. per la produzione di documenti estratti dal fascicolo delle indagini preliminari concluse dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano nei confronti di Vincent Bollorè e Arnaud De Puyfontaine, in relazione al reato contestato di manipolazione del mercato ai sensi dell’art. 185 TUF, che avrebbero fatto “emergere ulteriori importanti elementi fattuali” di cui non erano a conoscenza che dimostrerebbero l’illegittimità del rifiuto di Vivendi di eseguire il contratto.

Analoga istanza veniva depositata in pari data dalla società attrice Fininvest, sostenendo di aver avuto accesso al fascicolo delle indagini preliminari solo in data 8 gennaio 2021 e di aver estratto documentazione rilevante a conferma della tesi sostenuta della preordinazione dell’inadempimento al contratto preliminare di scambio di partecipazioni azionarie da parte di Vivendi al fine di far crollare il prezzo del titolo Mediaset in borsa ed agevolare la scalata ostile volta ad acquistare “a sconto” una partecipazione di “blocco” nel capitale di Mediaset.

Con memoria depositata il 9 febbraio 2021 la società convenuta contestava le produzioni documentali avversarie inammissibilmente eseguite dopo la rimessione della causa in decisione in quanto estrazione parziale e selettiva di una ventina di documenti dal fascicolo delle indagini preliminari che ne conterrebbe oltre 27.000 e produceva a sua volta, in replica, una serie di documenti scoperti solo dopo l’accesso al fascicolo delle indagini preliminari a conferma delle proprie tesi difensive, proponendo, a sua volta, istanza di rimessione in termini ai sensi dell’art. 153 comma 2 c.p.c.

Il giorno stesso dell’udienza di discussione le società attrici depositavano nel fascicolo telematico ulteriore documentazione la cui produzione, neanche visibile al momento della discussione, veniva ritenuta inammissibile dal Collegio.

Nel corso dell’udienza di discussione le parti dichiaravano di non opporsi alle produzioni documentali tardive della controparte a condizione dell’ammissione delle proprie e dopo ampia discussione delle questioni oggetto di controversia anche alla luce delle risultanze dei nuovi documenti, la causa veniva trattenuta in decisione.

 

***

Ripercorso in estrema sintesi il travagliato andamento processuale delle due cause riunite, la complessa stratificazione temporale delle domande introdotte dalle parti nel tentativo di operare l’aggiornamento in tempo reale dell’oggetto dei due giudizi all’evolvere progressivo degli eventi, difficilmente compatibile con la struttura del processo civile, rende necessaria, previa soluzione delle questioni processuali comuni, la motivazione distinta della decisione delle due controversie che, pur essendo riunite nello stesso processo, conservano la loro completa autonomia.

Le questioni processuali comuni ad entrambe le controversie.

Preliminarmente deve essere esaminata l’istanza di rimessione in termini formulata da entrambe le parti ai sensi dell’art. 153 comma 2 c.p.c. con riferimento alla produzione dei documenti allegati alle note depositate il 1.2.2021 ed il 9.2.2021, dopo la scadenza dei termini per il deposito delle memorie di replica, a ridosso dell’udienza fissata per la discussione orale della causa innanzi al Collegio.

Come noto l’art. 153 comma 2 c.p.c. consente alla parte di ottenere la rimessione in termini per l’esecuzione di attività processuale preclusa per effetto della scadenza del termine perentorio a cui è sottoposta, ove dimostri di essere incorsa nella decadenza per causa a lei non imputabile.

Nel caso in esame entrambe le parti invocano la rimessione in termini sostenendo di aver avuto la disponibilità della documentazione in questione solo dopo aver ottenuto, l’8 gennaio 2021, l’autorizzazione da parte del Pubblico Ministero all’estrazione di copie dal fascicolo delle indagini preliminari del procedimento penale avviato nei confronti di Vincent Bollorè e Arnaud De Puyfontaine, in relazione al reato di manipolazione del mercato ai sensi dell’art. 185 del TUF.

Nella situazione descritta nessuna delle parti ha contestato l’esistenza del presupposto della non imputabilità della causa della decadenza dal potere di produrre documenti, maturata nel presente processo il 9 luglio 2018 con la scadenza del termine assegnato dal giudice ai sensi dell’art. 183 comma 6 c.p.c., e deve, pertanto, ritenersi l’ammissibilità della tardiva produzione dei documenti in questione ancorché effettuata dopo la chiusura della fase istruttoria e la rimessione in decisione delle cause, per evidenti ragioni di economia processuale, trattandosi di materiale probatorio che, comunque, potrebbe essere acquisito al processo nella fase di appello, ai sensi dell’art. 345 c.p.c.

L’ammissione delle parti alla produzione documentale ultra tardiva non può, a scanso di equivoci, tradursi nel superamento della barriera delle preclusioni riferite alla trattazione delle cause, restando ferma la sua utilizzabilità ai fini della decisione per l’accertamento dei soli fatti e circostanze tempestivamente dedotte dalle parti prima della maturazione delle preclusioni assertive, connessa alla scadenza del termine perentorio per il deposito della memoria di trattazione ai sensi dell’art. 183 comma 6 n. 1 c.p.c.

Resta, infine, ferma l’inammissibilità già pronunciata dal Tribunale all’udienza di discussione collegiale delle produzioni documentali effettuate dalle società attrici l’11 febbraio 2021, in palese violazione del diritto al contraddittorio della società convenuta.

La giurisprudenza di legittimità, al riguardo, ha chiarito che all’udienza collegiale destinata alla relazione del giudice e alla discussione delle parti non può essere consentita la produzione di nuovi documenti, ancorché non vietati ai sensi dell’art. 345 c.p.c., non essendo possibile alla difesa avversaria l’esame del documento ai fini della replica sulla sua efficacia probatoria nel processo (v. Cass. 4.6.2001 n. 7511).

Ne deriva l’inutilizzabilità a supporto della decisione delle controversie riunite nel presente processo della documentazione allegata alla nota depositata dalle società attrici in data 11 febbraio 2021.

Procedendo all’esame delle questioni inerenti la delimitazione dell’ambito oggettivo e soggettivo del presente giudizio è fondata l’eccezione della società convenuta di inammissibilità delle diverse domande nuove introdotte dalle società attrici Mediaset, RTI e Fininvest in entrambe le cause riunite, violando il regime processuale delle decadenze e preclusioni che regola la proposizione di nuove azioni all’interno di un giudizio già avviato, in modo tale da calibrare ogni facoltà di ampliamento dell’oggetto del giudizio riconosciuta all’attore con le esigenze del diritto di difesa del convenuto.

La prima domanda nuova proposta dalla società attrice Fininvest all’udienza di trattazione del 21 marzo 2017, avente ad oggetto l’azione di risarcimento del danno lamentato a seguito della violazione di obblighi di protezione, buona fede e correttezza derivanti da contatto sociale qualificato nel corso della negoziazione del patto parasociale attraverso la scalata ostile, si fonda su causa petendi diversa da quella invocata nell’atto di citazione che presuppone la descrizione e dimostrazione di un nucleo di fatti costitutivi nuovi rispetto a quelli narrati nell’atto introduttivo del giudizio.

La responsabilità per inadempimento dell’obbligazione da contatto sociale ai sensi dell’art. 1173 c.c. presuppone, infatti, la deduzione di fatti costitutivi nuovi in relazione alla diversa fonte e natura dell’obbligo violato ed è stata richiamata dalla società attrice, nel corso dell’udienza di trattazione, in relazione ad un fatto di inadempimento, la scalata ostile, completamente diverso rispetto a quello dedotto in citazione ove si era invocata la responsabilità contrattuale o extracontrattuale per il danno derivato dalla mancata attuazione delle attività prodromiche, funzionali al verificarsi della condizione sospensiva prevista nell’accordo del 8 aprile 2016 a cui il patto parasociale accedeva.

La domanda ha, quindi, sicuramente introdotto una nuova azione risarcitoria che per espressa volontà della società attrice “si aggiunge e non sostituisce alle domande già formulate” ed è, quindi, una vera e propria domanda nuova la cui proposizione nel corso della prima udienza di trattazione è ammessa solo ove sia conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dalla parte convenuta, sempre che non si tratti di domanda che l’attore avrebbe già potuto proporre con l’atto di citazione.

Secondo la prospettazione della società attrice la domanda nuova in questione costituirebbe una reazione alle difese svolte da Vivendi nella comparsa di risposta allorché, per contrastare la sua domanda di adempimento, ha negato l’esistenza di qualsiasi accordo con lei sostenendo che il patto parasociale invocato a fondamento delle domande svolte in atto di citazione sarebbe un mero allegato non sottoscritto di un contratto stipulato fra altri soggetti.

Ma che la nuova domanda non sia affatto sorta dall’esigenza della società attrice di difendersi dalle contestazioni della società convenuta sull’inesistenza del patto parasociale e sulla sua estraneità all’accordo dell’8 aprile 2016 emerge evidente dal fatto che si trattava di circostanze tutte già ben note a Fininvest al momento della proposizione dell’atto di citazione e già ampiamente valutate nella formulazione, in via subordinata, della domanda di condanna della società convenuta alla sottoscrizione del patto parasociale e della domanda di condanna al risarcimento del danno a titolo di responsabilità extracontrattuale, che presuppone l’estraneità di Fininvest all’accordo dell’8 aprile 2016.

La fattispecie descritta non è annoverabile neanche fra le modificazioni della domanda consentite sino al deposito della prima memoria di trattazione, secondo l’interpretazione estensiva del sistema delle preclusioni assertive adottata dall’orientamento della suprema corte invocato dalla società attrice.

La giurisprudenza di legittimità in materia afferma, infatti, che la modificazione della domanda prevista dall’art. 183 comma 6 n. 1 c.p.c. può consistere nel mutamento di uno o di entrambi gli elementi oggettivi dell’azione costituiti dalla causa petendi e dal petitum, purché risulti connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e non determini la compromissione delle potenzialità difensive dell’avversario o la protrazione dei tempi del processo (Cass. 28.11.2019 n. 31078; Cass. 13.9.2019 n. 22865; Cass. 12.12.2018 n. 32146; Cass. SU 15.6.2015 n. 12310).

Per rientrare nel novero delle modificazioni consentite sino al deposito della prima memoria di trattazione la domanda che introduca un’azione diversa da quella originariamente proposta deve, in particolare:

- riferirsi alla stessa vicenda sostanziale cioè allo stesso nucleo di fatti costitutivi che non può, quindi, estendersi a comprendere fatti verificatisi dopo, relativi a vicende dipanatesi successivamente,

- sostituirsi e non aggiungersi alla domanda originariamente proposta, in modo tale da realizzare un’effettiva economia processuale e da non compromettere la difesa del convenuto che, giova ricordare, nella fase processuale in questione non ha più la possibilità di reagire se non tramite le mere difese, essendogli ormai preclusa la proposizione delle domande riconvenzionali e delle eccezioni in senso stretto nonché la richiesta di chiamare in causa un terzo, in forza della decadenza prevista dall’art. 167 c.p.c.

Nel caso in esame la domanda nuova introdotta da Fininvest nella prima udienza di trattazione così come, del resto, tutte quelle successivamente proposte, si fonda sul fatto nuovo della scalata ostile completamente estraneo al nucleo dei fatti costitutivi dedotti nell’atto di citazione, si aggiunge e non si sostituisce alle domande già proposte, come specificato dalla stessa attrice, e non ha realizzato alcuna effettiva economia processuale, posto che ha contribuito ad appesantire la trattazione e l’istruttoria documentale delle due cause riunite senza neanche evitare la proposizione di un giudizio autonomo sulla medesima vicenda, con la disfunzionale proliferazione di processi su domande risarcitorie relative allo stesso danno.

Come già accennato, anche le domande di adempimento contrattuale modificate nella prima memoria di trattazione hanno tardivamente introdotto una nuova azione connotata da una diversa causa pendenti, incentrata sull’inedito fatto di inadempimento costituto dalla scalata ostile, e dal nuovo petitum arricchito della richiesta di condanna della società convenuta alla dismissione delle azioni acquistate così come la domanda risarcitoria si è estesa a comprendere una nuova e nutrita serie di pregiudizi economici lamentati in conseguenza della scalata ostile.

Le nuove domande di adempimento sono, poi, state sostituite dalla domanda di risoluzione del patto parasociale violato attraverso la scalata ostile, formulata all’udienza del 4 dicembre 2018, fondata su una vicenda sostanziale di inadempimento completamente diversa da quella che aveva formato oggetto dell’originaria domanda di adempimento, che ha dato luogo ad un ennesimo mutamento della domanda, non consentito neanche dall’art. 1453 comma 2 c.c. che, come noto, presuppone che la domanda sostitutiva di scioglimento del vincolo si fondi sullo stesso fatto di inadempimento dedotto nell’atto introduttivo del giudizio.

Tutte le domande nuove introdotte dalla Fininvest nel corso della trattazione del presente giudizio in violazione delle preclusioni assertive devono essere ritenute inammissibili, così che l’unica domanda da esaminare nel merito nella seconda delle cause riunite è la domanda n. II delle conclusioni precisate all’udienza del 22 settembre 2020.

Per analoghe ragioni non possono essere esaminate nel presente giudizio né la domanda di risarcimento del danno lamentato in conseguenza della scalata ostile, proposta da Mediaset alla prima udienza di trattazione in aggiunta alle altre formulate nell’atto di citazione e fondata su un nuovo addebito sopravvenuto senza alcun collegamento con la domanda riconvenzionale o le eccezioni svolte da Vivendi, né la domanda nuova fondata sulla pretesa violazione del divieto contrattuale di acquisto di azioni e sulla prospettata nullità degli acquisti di azioni Mediaset effettuati da Vivendi in violazione dell’art. 43 del Tusmar, introdotta solo all’udienza del 4 dicembre 2018.

Del resto le tre società attrici Mediaset, RTI e Fininvest erano ben consapevoli che l’esame delle domande nuove, stratificatesi progressivamente pressoché in ogni loro atto difensivo, fosse precluso nel presente processo tanto che hanno proposto innanzi al Tribunale un giudizio autonomo per ottenere il risarcimento dello stesso danno, invocando gli stessi ed altri titoli di responsabilità, distinto al n. RG 30071/2017, che hanno richiesto insistentemente di riunire nel presente processo.

Nella situazione descritta, non si ravvisa, però alcuna ragione di economia processuale che possa giustificare la riunione del predetto giudizio alle due cause in esame, già oltremondo complesse, proprio perché attinente a fatti successivi e vicende diverse rispetto a quella oggetto degli atti introduttivi delle cause riunite nel presente processo.

Procedendo con l’esame delle questioni processuali relative alla modificazione della compagine soggettiva del processo deve, invece, essere disattesa l’eccezione di inammissibilità dell’intervento volontario spiegato, ai sensi dell’art. 105 c.p.c., da Mediaset Premium s.p.a. per proporre una nuova domanda risarcitoria nei confronti della società convenuta, dopo l’approvazione della deliberazione di fusione per incorporazione nella RTI s.p.a., società controllante già parte del giudizio.

La società convenuta ha sostenuto, al riguardo, l’inammissibilità dell’intervento per difetto della qualità di terzo nella società in procinto di essere fusa per incorporazione in una delle parti del processo che si risolverebbe nell’“abusivo” ingresso nel processo di una domanda nuova, preclusa alla società attrice, attraverso l’indebito sfruttamento delle più ampie facoltà processuali riconosciute dall’art. 268 comma 1 c.p.c. al terzo intervenuto.

Al riguardo è sufficiente evidenziare che, quando il 29 gennaio 2019 Mediaset Premium s.p.a. è intervenuta nel presente giudizio, la fusione per incorporazione non aveva ancora determinato l’effetto dell’accentramento dei patrimoni delle società partecipanti, verificatosi, per quanto riferito dalla stessa società convenuta, il 26 marzo 2019, quando la fusione, all’epoca solo approvata, è divenuta efficace.

Ne deriva che al momento dell’intervento in causa la società partecipante alla fusione era ancora un soggetto giuridico autonomo e distinto dalla società attrice ed aveva la facoltà di intervento adesivo autonomo in giudizio.

Solo successivamente si è verificata, infatti, l’assunzione da parte della società attrice incorporante dei diritti ed obblighi della società incorporata con la conseguente prosecuzione in tutti i suoi rapporti anche processuali anteriori alla fusione, prevista dall’art. 2504 bis c.c.

La giurisprudenza di legittimità richiamata dalla società convenuta a sostegno della sua tesi, secondo cui non può essere consentito alla parte di un processo di eludere le preclusioni assertive già maturate in suo danno assumendo indebitamente la posizione di terzo interveniente per fruire del diverso e più favorevole regime di preclusioni previsto per l’intervento, è evidentemente riferita all’ipotesi inversa rispetto a quella in esame in cui l’intervento era stato spiegato dal successore a titolo universale di una delle parti in causa già costituito in giudizio come tale, per far valere iure proprio un suo autonomo diritto.

Nel caso in esame, invece, la società incorporanda ha effettuato l’intervento in un momento in cui era ancora soggetto autonomo e distinto dalla società attrice incorporante, la quale è, poi, subentrata nella sua posizione sostanziale e processuale ai sensi dell’art. 2504 bis c.c., una volta divenuta efficace la fusione.

Non sussistono, quindi, le ragioni di inammissibilità dell’intervento per il difetto della qualità di terzo della società incorporanda sostenute dalla società convenuta.

Né il prospettato abuso dello strumento processuale, sotteso allo stratagemma processuale utilizzato dalle società attrice incorporante per sanare il difetto di legittimazione attiva ed eludere le preclusioni, potrebbe essere di ostacolo al riconoscimento della proponibilità della domanda nuova, potendo rilevare, semmai, nell’ambito della valutazione della responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., ove la domanda nuova introdotta con l’intervento della società incorporanda e proseguita dalla società incorporante, dovesse risultare oltre che infondata, proposta in malafede o colpa grave.

La decisione sulle domande delle parti nella prima controversia c.d. Giudizio Premium.

La complessa architettura delle domande principali e riconvenzionali come risultante anche all’esito del mutamento da parte delle società attrici della domanda principale di adempimento dell’accordo dell’8 aprile 2016 in domanda di risoluzione per inadempimento, impone di procedere al loro esame seguendo l’ordine logico delle questioni che ne costituiscono l’oggetto.

È, infatti, necessariamente prioritaria la valutazione e decisione delle domande di accertamento della validità del negozio condizionato rispetto a quelle dirette all’accertamento della sua efficacia o meno in relazione all’avveramento della condizione sospensiva ovvero all’accertamento della legittimità del recesso o dell’imputabilità dell’inadempimento ai fini della risoluzione, posto che la pronuncia di nullità o annullamento del contratto condizionato assorbirebbe ogni questione relativa all’avveramento della condizione o alla sopravvivenza del rapporto che dovesse esserne derivato.

Ciò a prescindere dal fatto che la parte ne abbia richiesto la valutazione in via “alternativa” che, allorché le domande, entrambe rientranti nel petitum, siano in rapporto di pregiudizialità logica non esime dall’esame di entrambe secondo l’ordine di priorità.

Iniziando dalla valutazione delle questioni inerenti la validità del contratto 8 aprile 2016, sia l’eccezione di nullità del contratto per mancanza di causa, sollevata da parte convenuta nel corso del giudizio, sia la domanda di annullamento per dolo ai sensi dell’art. 1439 c.c., formulata in via riconvenzionale, sono prive di fondamento giuridico.

La causa, come elemento costitutivo del contratto inteso nella sua accezione più evoluta di funzione individuale della singola e specifica convenzione risultante dalla sintesi degli interessi che il negozio è concretamente diretto a realizzare a prescindere dal modello astratto del tipo di negozio impiegato dai contraenti (c.d. causa concreta), va scrutinata in relazione all’assetto impresso dalle parti agli interessi coinvolti nel regolamento negoziale al momento della stipulazione dell’accordo.

La mancanza di causa è, quindi, vizio attinente alla fase genetica del contratto che deve emergere dal contenuto dell’accordo attraverso l’esame del regolamento degli interessi che vi è cristallizzato, insensibile alla sopravvenuta inattuazione del programma negoziale, che attiene invece alla fase successiva dell’esecuzione del contratto, così come all’erronea valutazione della convenienza economica dell’affare in relazione al difetto di qualità supposte dell’oggetto della prestazione che attiene, invece, alla possibile esistenza di vizi del consenso o di vizi redibitori.

In sintesi la causa concreta del contratto, come desumibile dal contenuto dell’accordo, non può venir meno per effetto della successiva inattuazione del programma negoziale o della successiva scoperta da parte di uno dei contraenti dell’errore nella valutazione della convenienza dell’affare.

È, dunque, infondata sin dalla prospettazione la questione della nullità per difetto di causa dell’accordo dell’8 aprile 2016 sollevata dalla società convenuta con riferimento alla successiva scoperta dell’irrealizzabilità del business plan della società target Mediaset Premium posto a fondamento della sua valutazione dell’equilibrio economico dello scambio.

Nonostante la notevole complessità del regolamento contrattuale, infatti, la causa emerge evidente dal contenuto del testo dell’accordo con cui le parti hanno adottato lo schema causale astratto tipico del contratto preliminare di permuta di azioni, introducendo nella struttura causale commutativa dello scambio l’alea dell’oscillazione del valore delle azioni tra la stipulazione dell’accordo preliminare e la conclusione del contratto definitivo, con lo scopo pratico di “costituire una partnership strategica nel settore dei contenuti audiovisivi, mirante a realizzare idonee sinergie industriali per sfruttare qualsiasi opportunità di sviluppo nello scenario industriale dei nuovi media internazionali..”.

Si trae, infatti, proprio dal testo delle premesse dell’accordo che “Come una delle fasi per la realizzazione della partnership strategica... le Parti si sono impegnate ad effettuare un’operazione globale mediante la quale Vivendi acquisirà il 100% del capitale di Target e il 3,5% del capitale di Mediaset in cambio di azioni di Vivendi rappresentanti il 3,5% del capitale di Vivendi, secondo termini e condizioni del presente Accordo.” (v. doc. 1 di parte attrice a pag. 4).

Lo scambio paritetico, cioè di un numero uguale di azioni tra Mediaset e Vivendi, le due società di vertice dei due gruppi, italiano e francese, operanti nel settore dei contenuti audiovisivi, era funzionale all’avvio della prima fase dell’alleanza strategica per l’espansione dell’attività sul mercato europeo ed internazionale. Mentre l’acquisizione dell’intero capitale sociale della controllata Mediaset Premium, specificamente operante sul mercato italiano nel settore della televisione a pagamento, era funzionale all’equilibrio economico dello scambio atteso il maggior valore delle azioni di Vivendi rispetto a quelle di Mediaset, al momento della stipulazione dell’accordo preliminare, come si desume dalla clausola n. 1.4, contenente la previsione di pagamento alternativo del corrispettivo, e dalle diverse clausole di garanzia sulla posizione finanziaria netta di Mediaset Premium.

Nel quadro delineato dell’assetto “statico” dell’equilibrio degli interessi si inserisce, poi, l’alea specificamente assunta dalle parti dell’oscillazione del valore di mercato “delle azioni di Vivendi, di Mediaset o di Target, sia per motivi dovuti alle predette società (anche tra l’altro per variazioni nelle rispettive circostanze economiche o finanziarie) sia per motivi non dovuti alle predette società”, al momento della conclusione del contratto definitivo, che innesta nella struttura del negozio l’incertezza del rapporto fra il sacrificio ed il vantaggio derivante a ciascun contraente dalla conclusione dell’operazione.

Se tanto emerge dal contenuto dell’accordo non si vede come possano incidere sull’esistenza della causa in concreto, le prospettive di operatività sul mercato di Mediaset Premium rivelatisi diverse da quelle valutate da Vivendi nel concludere l’accordo preliminare.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla società convenuta, infatti, la situazione patrimoniale, economica o finanziaria della società target non incideva affatto sulla realizzabilità dell’alleanza strategica, fondata essenzialmente sullo scambio azionario tra le due società di vertice dei due gruppi e sulle sinergie di impresa che ne sarebbero derivate, altrimenti Vivendi non avrebbe assunto, a conclusione dell’operazione, l’alea dell’oscillazione del valore di mercato anche delle azioni non quotate in borsa di Mediaset Premium, a cui è strettamente connesso il rischio dell’evoluzione negativa dei risultati dell’attività di impresa.

Né l’eventuale originario difetto dell’operatività sul mercato della società target prospettata al momento della conclusione dell’accordo, poteva avere incidenza tale da escludere completamente l’alea convenzionale assunta dalle parti con riferimento all’oscillazione di valore non delle sole azioni di Mediaset Premium ma anche delle azioni quotate in borsa di Mediaset e Vivendi.

Sicuramente la valutazione dell’operatività di Mediaset Premium con riferimento, in particolare, all’attendibilità delle previsioni del business plan consegnato a Vivendi nel corso delle trattative, ha inciso sulla valutazione della convenienza economica dello scambio, posto che il trasferimento dell’intero capitale sociale di Mediaset Premium andava a colmare il divario di valore di mercato tra i due pacchetti azionari numericamente paritetici di Mediaset e Vivendi al momento della conclusione dell’accordo preliminare ma, come già chiarito, la circostanza non ha alcuna incidenza sulla causa del contratto.

La diversa misura dell’alea rispetto a quella originariamente percepita da uno dei contraenti o la divergenza del valore dell’oggetto della prestazione in mancanza di qualità promesse o supposte dell’oggetto del contratto possono incidere, infatti, sulla genuinità del consenso o sull’esatta esecuzione dell’impegno negoziale ma non sull’esistenza della causa del contratto.

L’eccezione di nullità dell’accordo per difetto di causa deve, pertanto, essere disattesa.

Anche l’azione di annullamento per dolo dell’accordo proposta dalla società convenuta ai sensi dell’art. 1349 c.c. è priva di fondamento.

La società convenuta ha sostenuto, in estrema sintesi, la configurabilità del dolo nel comportamento tenuto dalle società attrici durante le trattative allorché avevano deliberatamente “occultato o mascherato” i dati abnormi relativi al numero delle richieste di recesso degli abbonati nel mese di dicembre 2015 e all’entità del costo delle promozioni straordinarie lanciate per scongiurare la perdita di clientela, dati questi incidenti negativamente sull’effettiva entità dell’ARPU nel primo trimestre 2016 e rilevanti ai fini della valutazione dell’attendibilità delle proiezioni di redditività dell’attività di impresa di Mediaset Premium poste a fondamento del business plan a cui le parti avevano fatto riferimento nella determinazione del contenuto del contratto, in particolare, con riguardo alla stima del valore della relativa partecipazione sociale e alla definizione delle garanzie contrattuali riconosciute all’acquirente.

La domanda è priva di fondamento giuridico semplicemente per come l’azione è prospettata.

L’annullamento del contratto per dolo, ai sensi dell’art. 1349 c.c., presuppone, infatti, l’adozione da parte di uno dei contraenti di raggiri tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe concluso il contratto. Se, invece, i raggiri non siano stati tali da determinare il consenso alla stipulazione del negozio che, senza di essi, sarebbe stato, comunque, concluso sia pure a condizioni diverse (c.d. dolus incidens), il contratto è valido secondo la previsione dell’art. 1440 c.c., salva la responsabilità per i danni del contraente in malafede.

Nel corso della trattazione della causa la società convenuta non ha mai neanche allegato che, ove avesse conosciuto i dati occultati dalle società attrici nella fase delle trattative e scoperti solo all’esito della due diligence successiva, avrebbe senz’altro desistito dalla stipulazione dell’accordo. Ha, invece, espressamente sostenuto, nella comparsa di risposta (v. pag. 40), che “in assenza delle omissioni dolose, avrebbe potuto negoziare diversamente le clausole contrattuali relative ad abbonati e Arpu al 31 dicembre 2015 incluse le soglie per esercitare il diritto di recesso e le definizioni rilevanti” o che avrebbe diversamente calibrato la clausola della garanzia sulla posizione finanziaria netta di Mediaset Premium al closing in almeno 1,2 miliardi anziché in € 120 milioni, invocando, nella prima memoria, addirittura l’applicazione dell’art. 1440 c.c. per ottenere il risarcimento del relativo danno (v. memoria depositata da Vivendi ex art. 183 comma 6 n. 1 c.p.c. a pag. 29).

Dal complesso delle stesse difese della società convenuta emerge che la mancata conoscenza dei dati cruciali per la valutazione dell’attendibilità del business plan di Mediaset Premium consegnato nel corso delle trattative non è stata determinante del consenso alla stipulazione dell’accordo ed ha inciso solo sul contenuto delle pattuizioni negoziali che sarebbe stato diverso ove i dati in questione fossero stati disvelati prima della due diligence. E la circostanza è dirimente per affermare l’infondatezza della domanda di annullamento del vincolo.

In ogni caso, non può dirsi ricorrente, nella fattispecie descritta, neanche il dolo omissivo rilevante come vizio del consenso ai fini dell’applicazione del rimedio previsto dall’art. 1439 c.c. che, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità,

a) non è integrato dal mero silenzio o dalla reticenza anche su situazioni di interesse per l’altro contraente che non abbiano immutato la rappresentazione della realtà ma abbiano avuto il limitato effetto di non contrastare la percezione di essa alla quale dovesse essere pervenuto l’altro contraente, atteso che, per assumere rilevanza, il silenzio o la reticenza devono inserirsi in un comportamento complessivamente preordinato con astuzia a perpetrare l’inganno;

b) e deve, comunque, essere valutato in relazione alle particolari circostanze di fatto ed alle qualità e condizioni soggettive dell’altra parte, onde stabilire se il silenzio e la reticenza erano idonei a sorprendere una persona di normale diligenza, giacché l’affidamento non può ricevere tutela giuridica se fondato sulla negligenza (v. fra le molte Cass. 8.5.2018 n. 11009; Cass. 20.1.2017 n. 1585; Cass. 15.3.2005 n. 5549; Cass. 12.2.2003 n. 2104).

Sotto il primo profilo il comportamento tenuto dalla società attrici nella fase delle trattative assume senza alcun dubbio i connotati della reticenza su dati specifici rilevanti per la valutazione da parte dell’acquirente delle prospettive di redditività della società target.

Come si desume dalle ampie deduzioni difensive delle parti sulla questione e dalle perizie allegate, per la valutazione della redditività dell’azienda operante nel comparto delle televisioni a pagamento, caratterizzato dal livello elevato dei costi fissi da sostenere periodicamente per l’acquisto dei diritti di trasmissione dei contenuti e dalla “volatilità” del parco abbonati che costituiscono l’unica fonte di reddito, i dati relativi all’oscillazione del numero degli abbonati ed al reddito medio per abbonato (c.d. ARPU) in un determinato periodo, così come l’entità dei costi sostenuti per le promozioni mirate all’acquisizione o al mantenimento della clientela, sono fondamentali per valutare le prospettive dell’impresa di produrre utile.

I dati corrispondenti al numero degli abbonati e all’ARPU non sono, però, indicatori assoluti ma sono variabili dipendenti dalla composizione del “paniere” su cui sono calcolati e dalla durata temporale del periodo a cui si riferiscono, così che l’impresa può disporre sugli indicatori in questione di una pluralità di dati diversamente aggregati o disaggregati a seconda delle finalità perseguite nel rilievo.

In particolare, quanto, al parametro del numero degli abbonati, anche all’interno dell’organizzazione della gestione di impresa di Mediaset Premium, poteva essere calcolato includendo o escludendo diverse tipologie di clienti con contratti riferiti a contenuti diversi così come l’ARPU poteva essere calcolato al netto o al lordo delle promozioni e della componente fiscale ovvero su base mensile o trimestrale (v. per l’illustrazione dettagliata delle diverse tipologie di indicatori la relazione Prof. Colombo di cui al doc. 77 di parte convenuta da pag. 8 a pag. 18).

Tanto è vero che le parti nell’accordo dell’8 aprile 2016 avevano fissato i criteri convenzionali di determinazione del numero degli abbonati e dell’ARPU rilevanti ai fini dell’applicazione delle pattuizioni negoziali, all’allegato C del contratto (v. doc. 28 di parte attrice).

Ciò chiarito in ordine alle caratteristiche dei fondamentali indicatori di gestione oggetto di controversia emerge evidente che il silenzio della parte venditrice della partecipazione azionaria su una qualsiasi delle possibili aggregazioni o disaggregazioni dei dati in questione si traduce sicuramente in reticenza su circostanze di interesse per la parte acquirente ma non comporta di per sé manipolazione o falsificazione del singolo dato che possa integrare l’inganno.

La semplice reticenza su dati risultanti da una disaggregazione o aggregazione diversa da quella attesa dalla controparte non è, infatti, sufficiente a configurare il dolo omissivo, che, presupponendo, comunque, il raggiro, richiede la prova rigorosa che siano stati forniti dati aggregati o disaggregati in modo errato a fronte di specifiche ed inequivoche richieste.

Al riguardo, è sufficiente evidenziare che, nonostante il lievitare “ipertrofico” nel corso del giudizio delle contestazioni reciproche delle parti sulla questione e la mole imponente della documentazione anche tecnica introdotta da ciascuna a supporto delle proprie tesi,

- né Mediaset e RTI hanno mai sostenuto e dimostrato in giudizio di aver comunicato a Vivendi, prima della firma dell’accordo dell’8 aprile 2016, il dato relativo al numero totale di 91.961 delle richieste di recesso ricevute nel mese di dicembre 2015, il dato relativo al costo complessivo delle promozioni straordinarie elargite nei primi tre mesi del 2016 per € 41,6 milioni ed il dato relativo al numero di 51.264 clienti receduti nel solo mese di gennaio 2016, risultanti dai documenti estratti dalla data room nel corso della due diligence (v. doc. all. 82 pag. 6, 37, 38, all. 126, all.127 e all.17 di parte convenuta)

- né Vivendi ha mai allegato e dimostrato di aver richiesto specificamente nel carteggio precedente alla riunione del 10 marzo 2016 (v. doc. all.18 di parte convenuta contenente l’elenco delle “domande preliminari”) o nel corso della riunione stessa, la specifica indicazione dei dati anzi descritti, la cui ignoranza l’avrebbe tratta in inganno nella valutazione della convenienza dell’affare. Neanche il c.d. canovaccio interno prodotto dalla società convenuta in estremis, contenente il brogliaccio delle risposte fornite, poi, oralmente alla riunione del 10 marzo 2016 dallo staff di Mediaset, evidenzia risposte relative a richieste di comunicazione specifica dei dati in questione (doc. G3 allegato alla nota del 9.2.2021).

Nella situazione descritta deve senz’altro riconoscersi la reticenza di Mediaset sulla consistenza del fenomeno delle richieste di recesso e sulle politiche commerciali straordinarie adottate per scongiurare la diaspora degli abbonati seguita all’innalzamento del prezzo dell’abbonamento prospettato nel mese di novembre 2015 ma non vi è alcuna prova che a richieste specifiche e dirette di Vivendi siano stati forniti dati manipolati o erronei.

Non vi sono, quindi, elementi per affermare che il silenzio, serbato da Mediaset deliberatamente per non svelare dati considerati “sensibili” ad un possibile concorrente prima della sottoscrizione dell’accordo (v. doc. G11 di parte convenuta allegato alla nota di deposito del 9.2.2021 c.d. memoriale Straziota) attraverso la comunicazione dei dati aggregati o disaggregati nella modalità strettamente attinente al tenore delle molteplici richieste della controparte, si sia tradotto in dolo omissivo rilevante ai fini dell’annullamento del contratto.

Del resto, tale reticenza, che Mediaset aveva riservato anche agli analisti finanziari consultati dall’acquirente prima della sottoscrizione dell’accordo (v. doc. 41 pag. 4 presentazione JP Morgan e doc. 91 pag. 8 di parte convenuta), poteva ben essere supposta da Vivendi,nel corso delle trattative, dal momento che aveva accettato di stipulare un accordo che prevedeva la possibilità di effettuare la due diligence sulla società target solo dopo la firma del contratto preliminare.

Non potrebbe, in ogni caso, seriamente sostenersi l’idoneità del silenzio di Mediaset sui dati in questione ad ingannare un colosso sul mercato del settore “al vertice di uno dei più grandi gruppi industriali al mondo nel settore dei media e nella creazione e distribuzione di contenuti audiovisivi” come Vivendi, assistita nelle trattative e nella formazione del contratto oggetto di causa dai più rinomati studi di consulenza (v. doc. 156 relativo alle parcelle emesse per l’assistenza professionale), nella valutazione dell’attendibilità del business plan posto a fondamento della valutazione di convenienza dello scambio economico.

Tanto più se si considera che aveva avuto la possibilità di consultare i report di diversi analisti, scettici sulla realizzabilità degli obiettivi di redditività prefissati, proprio in considerazione della politica commerciale connotata da promozioni aggressive attuata nel mese di dicembre 2015 e prevista da febbraio 2016 che lasciava prevedere significative perdite del margine operativo lordo rispetto all’obiettivo programmato (v. doc. 38 e 40 di parte attrice).

Afferma, infatti, il report di HSBC del 17 febbraio 2016 “Rimaniamo cauti sulla pay-TV MS Premium ha chiuso l’anno con oltre 2 milioni di abbonati.. che è un buon finale d’anno (non sapendo quante persone hanno approfittato della promo natalizia EUR1 fortemente scontata). Le nostre preoccupazioni riguardano principalmente ciò che accadrà a lungo termine con Premium.” (v. doc. 38 pag. di parte attrice), a cui fa eco il Report di Goldman Sachs del 26 febbraio 2016 ove si legge “Mediaset è stata piuttosto aggressiva nel tentare di ottenere nuovi abbonati per recuperare i costi incrementali... Mediaset ha presentato delle offerte natalizie molto aggressive a dicembre per i suoi pacchetti serie/cinema/Infinity (quindi escluso Sport) al costo di €1/mese per i primi 12 mesi. Ciò ha consentito a Mediaset di raggiungere l’obiettivo di 2mn clienti paganti alla fine del 2015 (contro gli 1,7mn alla fine di giugno 2015).

A febbraio 2016, Mediaset offre ciascuno dei propri quattro pacchetti a €19/mese per i primi 12 mesi, prima di tornare ai prezzi precedenti di €26/€26/€36/€42/mese, rispettivamente.

Stimiamo che Mediaset dovrà aggiungere 700k clienti premium (1,75mn alla fine del 2014) e aumentare il prezzo mensile di €4 (€23/mese come ARPU premium a fine 2014) per poter raggiungere l’obiettivo di pareggio nel 2017. Crediamo che ciò sia troppo aggressivo e invece ipotizziamo acquisizioni nette di 400k clienti nel periodo 2014-2017, e un aumento di prezzo di €4/mese. In tal senso, prevediamo notevoli perdite EBIT di bilancio pari a -€101mn nel 2015, -€116mn nel 2016 e - €52mn nel 2017, rispetto all’obiettivo iniziale Mediaset di -€33mn/-€21mn/+€54mn nel 2015/16/17.” (v. doc. 40 di parte attrice pag. 74 e 75 del file).

A prescindere dal fatto che le previsioni negative riportate non fossero supportate da dati provenienti da Mediaset che, come già detto, aveva sempre rifiutato di comunicarli agli analisti, è innegabile che avrebbero dovuto mettere in allerta la società convenuta sulla convenienza dell’affare che si accingeva a concludere, proprio con riferimento all’incidenza delle promozioni aggressive in corso sulla consistenza del “parco” abbonati e del margine operativo dell’impresa.

Del resto che Vivendi non sia stata affatto ingannata sulle effettive prospettive di redditività della società target e sull’attendibilità del suo business plan risulta, senza alcuna necessità di ragionare in via presuntiva, dalla lettera del 7 marzo 2016 proveniente dalla manager Laurence Daniel, dello staff interno della società convenuta, indirizzata per conoscenza anche all’amministratore delegato di Vivendi Arnaud de Puy Fontaine, che giudicava “ambizioso” il piano di contenimento delle perdite operative fondato su previsioni irrealistiche di aumento del numero di abbonati e dell’ARPU, evidenziava, al di là della garanzia del livello di perdite nei primi due anni che “il rischio rimane a noi dopo 3 anni”, sottolineava di conseguenza la difficoltà di giungere alla conclusione del vincolo senza una due diligence preventiva e suggeriva, come modus operandi “Torniamo a un format più normale con una rapida due diligence... e poi redigiamo il contratto di cessione” (v. doc. 102 di parte attrice allegato alla nota depositata in data 1.2.2021).

Il fatto, poi, che Vivendi si sia accontentata di semplici risposte orali all’articolato questionario esaminato nella famosa seduta del 10 marzo 2016 invece di rifiutarsi di concludere l’affare in mancanza della possibilità di eseguire una due diligence preventiva, come suggerito da chi al suo interno aveva ben intuito i profili di inattendibilità delle previsioni del business plan, assume i contorni o di una azzardata scelta di rischio imprenditoriale, affrontato pur di stringere l’importante alleanza strategica con Mediaset, o di un’inescusabile negligenza nella sottovalutazione degli “allarmi” interni (provenienti dallo staff) ed esterni (provenienti dai report di alcuni analisti finanziari) che mettevano in guardia sull’attendibilità e la fattibilità del businnes plan di Mediaset Premium.

Evenienze entrambe estranee alla tutela dell’affidamento del contraente in tesi vittima del dolo dell’altro.

La domanda di annullamento per dolo dell’accordo dell’8 aprile 2016 deve, pertanto, essere respinta.

Appurata la piena validità del contratto preliminare di permuta di azioni perfezionato in vincolo negoziale con la sottoscrizione dell’accordo dell’8 aprile 2016, deve essere affrontata la questione della sua inefficacia in ragione del mancato avveramento della condizione sospensiva, apposta dalle parti alla clausola n. 2, rispetto alla quale le società attrici hanno invocato la fictio iuris di avveramento prevista dall’art. 1359 c.c., in conseguenza del comportamento tenuto dalla società convenuta per “bloccare” il procedimento di acquisizione delle autorizzazioni amministrative prescritte a cui era subordinata l’efficacia del negozio.

Alla clausola n. 2.1 dell’accordo le parti avevano previsto che gli scambi azionari oggetto del contratto avrebbero dovuto essere eseguiti entro il mese immediatamente successivo al verificarsi della condizione sospensiva dell’“ottenimento, entro i termini di legge, di tutte le approvazioni, i permessi e le autorizzazioni di qualsiasi autorità competente nazionale e sovranazionale (comprese eventuali autorizzazioni obbligatorie in materia di controllo sulle fusioni) necessari per completare le operazioni.”

La pattuizione era seguita, alla clausola n. 2.2, dall’analitica previsione di specifici obblighi di collaborazione fra le parti tenute, in particolare, le società venditrici a fornire tutte le informazioni sulla società target e tutta la documentazione necessaria ad avviare le procedure istruttorie per la notifica presso le competenti autorità Antitrust e la società acquirente ad avviare ed istruire a sue spese il relativo procedimento presso le autorità garanti, ferma restando l’insussistenza di qualsiasi obbligo a carico di Vivendi di accettare eventuali limitazioni imposte dall’autorità alle operazioni o alla conduzione delle attività delle sue attuali affiliate o di adeguarsi ad eventuali richieste di dismissione di rami d’azienda.

Per l’avveramento della condizione era previsto il termine del 30 settembre 2016, prorogabile una volta sull’accordo delle parti, scaduto il quale “il presente Accordo sarà risolto e ciascuna delle Parti sarà completamente sollevata da ogni obbligo in esso previsto, fatti salvi quelli relativi a eventuali inadempienze occorse prima di tale risoluzione.” (v. doc. 1 di parte attrice a pag. 8 e 9).

La clausola condiziona, quindi, in estrema sintesi l’efficacia del contratto alla condizione sospensiva del rilascio, entro il termine stabilito, di tutte le autorizzazioni delle autorità nazionali e sovranazionali preposte, necessarie al completamento dell’operazione di scambio azionario programmata, prescrivendo a ciascuna delle parti specifiche ed obbligatorie modalità di condotta per favorire il buon esito dei relativi procedimenti costituenti una sorta di “procedimentalizzazione” del dovere, previsto dall’art. 1358 c.c., di comportarsi secondo buona fede in pendenza della condizione.

Non costituisce oggetto di contestazione che la società convenuta dopo aver avviato e concluso con esito favorevole il procedimento per il rilascio delle autorizzazioni dell’autorità antitrust nazionale con le delibere dell’Agcom del 7 luglio 2016 n. 315 e 316 (v. doc. 47 di parte convenuta), ha deliberatamente “bloccato” il procedimento avviato presso la Commissione Europea per il rilascio della dichiarazione di compatibilità con il mercato comune della realizzazione di una concentrazione di dimensione comunitaria, ai sensi dell’art. 7 comma 1 del Regolamento 139/2004 CE, in vista della rinegoziazione delle condizioni dell’accordo (v. lettera del legale di Vivendi del 4 luglio 2016 al funzionario della Commissione Europea di cui al doc. 52 di parte convenuta).

Nella situazione descritta l’inapplicabilità del meccanismo della fictio iuris previsto dall’art. 1359 c.c. - secondo cui la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento – deriva: (i) dal carattere bilaterale della condizione, chiaramente apposta dai contraenti nell’interesse di entrambe le parti alla costituzione dell’alleanza strategica che costituisce la causa del contratto; (ii) dalla natura dell’evento dedotto in condizione, costituito dal rilascio di autorizzazioni amministrative, indispensabili a realizzare la finalità economica del contratto, che non possono essere sostituite dalla semplice finzione legale della loro effettiva emanazione.

Afferma, al riguardo, la giurisprudenza di legittimità che la previsione dell’art. 1359 c.c. “non è applicabile alla “condicio iuris” sospensiva non potendosi sostituire con una semplice finzione legale la effettiva emanazione dell’atto amministrativo di autorizzazione, richiesto dalla legge come requisito legale dell’efficacia del negozio e come tale, peraltro, eventualmente considerato dalle stesse parti private.” (v. Cass. 22.3.2001 n. 4110 in motivazione; Cass. 2.6.1992 n. 6676; Cass. 5.2.1982 n. 675).

È evidente, infatti, che il mancato avveramento della condizione del rilascio dell’autorizzazione da parte dell’autorità preposta alla verifica della compatibilità della concentrazione con il mercato comune, prevista dall’art. 7 comma 1 del Regolamento 139/2004 CE, determina l’impossibilità dello scambio azionario che si risolva in concentrazione di dimensione comunitaria, e non può essere surrogata dalla finzione di avveramento.

In conclusione, alla stregua delle considerazioni appena svolte, deve essere accertata l’inefficacia dell’accordo dell’8 aprile 2016 soggetto a condizione sospensiva non avveratasi nel termine pattuito, con conseguente assorbimento di tutte le domande proposte in via subordinata dalla società convenuta.

Non resta, quindi, che procedere all’esame della domanda di risoluzione del contratto che ha sostituito la domanda originaria di adempimento, a seguito della mutatio libelli operata dalle società attrici, ai sensi dell’art. 1453 comma 2 c.c., all’udienza del 4 dicembre 2018.

Il mutamento della domanda di adempimento dell’accordo originariamente proposta dalle società attrici in domanda di risoluzione per inadempimento del contratto sospensivamente condizionato con condanna della società convenuta al risarcimento del danno che ne è derivato, ai sensi dell’art. 1453 comma 2 c.c., è indubbiamente ammissibile secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità più recente, purché resti identico il fatto costitutivo dell’inadempimento originariamente prospettato (v. Cass. SU 11.4.2014 n. 8510; Cass. 25.6.2018 n. 16682).

Deve, quindi, essere affrontata preliminarmente la questione sollevata dalla società convenuta della configurabilità del rimedio risolutorio avverso un contratto condizionato già inefficace in ragione del mancato avveramento della condizione.

La questione attiene essenzialmente all’interesse della parte all’eliminazione giudiziale di un vincolo negoziale perfetto e valido che non ha mai prodotto gli effetti giuridici programmati e che mai li produrrà, essendo ormai definitivo il mancato avveramento della condizione sospensiva sottoposta a termine, oltre che all’impossibilità di configurare l’inadempimento con riferimento ad obbligazioni contrattuali mai sorte.

Al riguardo è necessario chiarire che il contratto condizionato sospensivamente è inefficace con riferimento agli effetti tipici programmati nel regolamento negoziale adottato ma è pur sempre immediatamente produttivo dell’effetto vincolante delle parti all’osservanza delle pattuizioni e degli effetti prodromici e preparatori dell’adempimento nel periodo di pendenza della condizione che potrebbero aver già determinato mutamenti della situazione giuridica che richiedano l’eliminazione del vincolo ai fini del ripristino di quella originaria.

Ancorché non siano sorte le obbligazioni derivanti dal regolamento negoziale “sospeso” la risoluzione per inadempimento del contratto condizionato è configurabile per recidere il vincolo negoziale se il mancato avveramento della condizione sia imputabile alla violazione ad opera dell’altra parte degli obblighi prodromici specificamente derivanti dal dovere di comportarsi secondo buona fede in pendenza della condizione previsto dall’art. 1358 c.c.

La giurisprudenza di legittimità non dubita della configurabilità della risoluzione del contratto condizionato sospensivamente in questa particolare situazione ed ha ripetutamente affermato il principio secondo cui “Il contratto sottoposto a condizione sospensiva può ritenersi perfettamente concluso e, anche se non ancora efficace, già produce obbligazioni preliminari o prodromiche - da osservarsi dai contraenti durante la pendenza della condizione - il cui inadempimento può dar luogo ad una responsabilità contrattuale e ad una pronuncia di risoluzione per mancato rispetto degli obblighi di cui al citato art. 1358 c.c..” (v. fra le molte Cass. 19.6.2014 n. 14006; Cass. 12.2.2014 n. 3207; Cass. 24.10.2011 n. 21951; Cass. 3.6.2010 n. 13469; Cass. 18.3.2002 n.3942; Cass. 22.3.2001 n. 4110).

La configurabilità del rimedio risolutorio avverso il contratto sospensivamente condizionato è, dunque, limitata alla deduzione di un fatto di inadempimento riferito alla violazione degli obblighi prodromici derivanti dal dovere di comportamento in buona fede durante la pendenza della condizione sancito all’art. 1358 c.c. che ne abbia determinato il mancato avveramento e richiede, comunque, che la parte abbia uno specifico interesse a recidere il vincolo negoziale inefficace per rimuovere ogni possibile conseguenza derivante dalla sua persistenza.

Senza dubbio deve escludersi la possibilità di adottare la pronuncia costitutiva di risoluzione del vincolo negoziale soggetto a condizione sospensiva nell’ipotesi in cui il regolamento contrattuale abbia specificamente disciplinato la sorte del vincolo condizionato.

Nel caso in esame, con l’accordo dell’8 aprile 2016, le parti hanno stretto un vincolo negoziale perfetto e valido ancorché soggetto a condizione sospensiva, indubbiamente rimasto inefficace quanto alla produzione degli effetti tipici del contratto preliminare e cioè al sorgere dell’obbligazione principale di concludere il contratto definitivo reciprocamente traslativo della titolarità delle azioni alle condizioni concordate e di stipulare i patti accessori.

L’accordo ha, invece, immediatamente prodotto gli effetti prodromici e preparatori inerenti le obbligazioni reciprocamente assunte dalle parti alle lettere da a) ad f) della clausola 2.2 dell’accordo per disciplinare il periodo transitorio della pendenza della condizione sospensiva, in una sorta di “procedimentalizzazione”, come si è detto, dell’obbligo di comportamento secondo buona fede sancito dall’art. 1358 c.c.

Ma proprio per evitare l’indefinita persistenza degli effetti prodromici del contratto sospensivamente condizionato le parti hanno stabilito il termine del 30 settembre 2016 entro cui la condizione avrebbe dovuto verificarsi, prorogabile una sola volta sull’accordo di entrambe, scaduto il quale “il presente Accordo sarà risolto e ciascuna delle Parti sarà completamente sollevata da ogni obbligo in esso previsto, fatti salvi quelli relativi a eventuali inadempienze occorse prima di tale risoluzione.” (v. doc. 1 di parte attrice a pag. 8 e 9).

Dall’inutile scadenza del termine previsto per l’avveramento della condizione sospensiva, in mancanza di qualsiasi accordo per la sua proroga, il contratto condizionato si è, dunque, risolto per effetto della specifica pattuizione in tal senso delle parti.

Ne deriva l’impossibilità dell’adozione della pronuncia costitutiva di risoluzione invocata dalle società attrici, potendo al più, onde fugare ogni dubbio sulla persistenza del vincolo condizionato, essere accertata l’avvenuta risoluzione dell’accordo condizionato al 30 settembre 2016 per effetto della specifica previsione contrattuale di cui all’art. 2.2 ultimo periodo.

All’avvenuta risoluzione dell’accordo per effetto della clausola richiamata, che fa espressamente salvi gli effetti obbligatori derivanti dalle inadempienze verificatesi prima, consegue, comunque, la responsabilità del contraente a cui l’inadempimento è imputabile per il danno subito dall’altro.

Il fatto di inadempimento tempestivamente dedotto dalle società attrici a fondamento della domanda risarcitoria conseguente alla risoluzione dell’accordo condizionato è la deliberata inosservanza da parte della società convenuta degli obblighi assunti alle lettere dalla b) alla d) della clausola 2.2 dell’accordo per favorire il rilascio dell’autorizzazione da parte dell’autorità di controllo antitrust europea e, in ultima analisi, di collaborare in buona fede onde rendere possibile l’avveramento della condizione.

L’obiettiva inattuazione delle obbligazioni specificamente assunte per favorire il rilascio della dichiarazione di compatibilità dell’operazione con il mercato comune da parte della Commissione Europea è pacificamente riferibile al comportamento della società convenuta che, di sua iniziativa, ha “bloccato” il procedimento già avviato per il rilascio del provvedimento in vista della auspicata rinegoziazione dell’accordo (v. doc. 52 di parte convenuta) dopo aver scoperto, all’esito della due diligence, dati rilevanti ai fini della valutazione degli indicatori fondamentali di redditività dell’impresa, concernenti il numero di abbonati e l’ARPU, che avevano reso evidente l’irrealizzabilità del business plan della società target, consegnato dalle società attrici nel corso delle trattative e posto a fondamento della valutazione di convenienza dello scambio azionario e della previsione di garanzia sulla posizione finanziaria netta della società target al momento del closing.

In particolare, la società convenuta ha giustificato la sua condotta sostenendo che in ragione della scoperta dei dati, taciuti dalle attrici nel corso delle trattative, relativi al numero totale di 91.961 richieste di recesso ricevute nel mese di dicembre 2015, al costo complessivo delle promozioni straordinarie elargite nei primi tre mesi del 2016 ed al numero di 51.264 clienti receduti nel solo mese di gennaio 2016, si era avveduta dell’irrealizzabilità delle previsioni del business plan di Mediaset Premium relativo al periodo 2016-2020 - ove, a fronte di un progressivo aumento dei ricavi si pronosticava il riassorbimento nei primi due anni delle perdite sino a giungere alla gestione in pareggio a partire dall’anno 2018 (v. doc. 10 di parte attrice) - che aveva posto esplicitamente a fondamento della pattuizione della clausola di garanzia della posizione finanziaria netta di 120 milioni di euro, come del resto riconosciuto dallo stesso amministratore delegato delle società attrici nella lettera del 18.6.2016 (v. doc. 142 di parte convenuta).

Nella situazione descritta, per accertare l’imputabilità o meno a Vivendi dell’inadempimento che ha determinato il mancato avveramento della condizione sospensiva risolvendosi essenzialmente in un recesso dall’accordo preliminare dell’8 aprile 2016 è, quindi, fondamentale verificare se la scoperta, dopo la due diligence, dei dati in questione e del loro innegabile impatto sulla valutazione di attendibilità delle previsioni del business plan poste a fondamento della trattativa delle clausole di garanzia, potessero giustificare, sulla base del contratto validamente sottoscritto, la decisione di non dar corso alla conclusione dell’operazione programmata.

È indispensabile, quindi, procedere all’interpretazione del complesso articolato contrattuale che, come noto, è soggetta, innanzitutto, all’applicazione dei criteri ermeneutici strettamente interpretativi generali, dettati dagli articoli 1362 e 1363 del codice civile.

La volontà negoziale delle parti deve essere, infatti, ricostruita prima di tutto tenendo conto oltre che del significato letterale delle espressioni utilizzate, del senso che risulta dal contenuto complessivo dell’atto e dal comportamento anche posteriore tenuto dalle parti, essendo possibile il ricorso ai canoni interpretativi-integrativi previsti nei successivi articoli del codice, solo ove la prima operazione ermeneutica non abbia consentito l’attribuzione di un significato univoco alla manifestazione della volontà contrattuale, secondo la nota gerarchia interna dei criteri di interpretazione del contratto stilata dall’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità (v. fra le molte Cass. 24.1.2012 n. 925; Cass. 9.6.2005 n. 12120; Cass. 14.10.2003 n. 15371).

Con riferimento alla verifica dell’esistenza della facoltà contrattuale di recesso di Vivendi nella situazione descritta, assume particolare rilievo l’esame e l’interpretazione del complesso delle clausole che attribuisce natura aleatoria al negozio con il contrappeso di un articolato sistema di garanzie a favore della società acquirente, ove la facoltà di recesso o risoluzione del vincolo le è specificamente attribuita solo nelle ipotesi tassativamente previste, al di fuori delle quali il risarcimento del danno o l’indennizzo sono previsti come rimedio contrattuale esclusivo.

Dall’esame del testo contrattuale emerge, in particolare, che:

a) alla clausola n. 1.6 le parti hanno espressamente strutturato il contratto come aleatorio stabilendo “in particolare, sotto questo aspetto, le Parti riconoscono sin d’ora che qualsiasi variazione nel valore di mercato delle azioni di Vivendi, di Mediaset o di Target, sia per motivi dovuti alle predette società (anche, tra l’altro, per variazioni nelle rispettive circostanze economiche o finanziarie) sia per motivi non dovuti alle predette società, sarà riconducibile all’alea normale del presente Accordo ai fini dell’Art. 1467 2 comma, del Codice Civile”.

Posto che l’espressione “Target” sta per Mediaset Premium, dal semplice esame della clausola richiamata emerge che l’alea convenzionale riguardava anche l’eventuale evoluzione negativa della redditività dell’impresa rispetto a quella attesa, senza alcuna distinzione tra le ragioni, anteriori o posteriori alla sottoscrizione del contratto, della modificazione della sua situazione economico-finanziaria. Per quanto l’alea in questione fosse indubbiamente acuita dal riconoscimento a Vivendi della facoltà di sottoporre Mediaset Premium a due diligence solo dopo la sottoscrizione del contratto preliminare (clausola 3.1), è evidente che di per sé la scoperta successiva alla conclusione del contratto preliminare di scambio azionario di circostanze che avrebbero potuto compromettere anche in modo serio la redditività dell’impresa, non potesse giustificare la risoluzione del vincolo sotto il profilo dell’eccessiva onerosità sopravvenuta.

b) alla clausola n. 1.1 le parti hanno pattuito, come unica garanzia contrattuale accordata a Vivendi sull’effettiva situazione economico finanziaria di Mediaset Premium, quella relativa alla posizione finanziaria netta che non avrebbe dovuto essere inferiore a 120 milioni di euro al momento del verificarsi della condizione sospensiva.

Infatti, alla clausola n. 1.1 “Le Parti hanno convenuto che la posizione finanziaria netta di Target all’ultimo giorno solare del mese in cui si verificherà la Condizione sospensiva...sarà pari ad Euro 120.000.000 (centoventi milioni/00)” ed hanno, quindi, previsto, l’impegno di RTI a versare a Mediaset Premium l’importo necessario ad assicurare che la posizione finanziaria netta sia pari a 120 milioni di euro oppure l’impegno di corrispondere a Vivendi una somma in danaro pari alla differenza a titolo di adeguamento del corrispettivo stimato per l’acquisto del capitale sociale di Mediaset Premium, secondo le articolate previsioni della clausola 1.5.

L’impatto delle circostanze scoperte dopo la due diligence sulla situazione finanziaria di Mediaset Premium avrebbe potuto, quindi, avere rilevanza solo entro i limiti della garanzia pattuita in ordine alla posizione finanziaria netta.

Come già chiarito la garanzia in questione era stata calibrata dalle parti sulle previsioni del business plan che, a loro volta, dipendevano dagli indicatori fondamentali dell’operatività dell’azienda relativi al numero di abbonati e all’ARPU, come definiti convenzionalmente dalle parti nell’allegato C dell’accordo (v. doc. 28 di parte attrice), in relazione ai quali erano, poi, previste apposite garanzie contrattuali, comprensive in ipotesi tassative, del diritto convenzionale di recesso. In particolare:

c) alla clausola n. 3.2 lett. a) era riconosciuto a Vivendi il diritto di recesso dal contratto entro il 15 maggio 2016, nel caso in cui il totale effettivo di abbonati a Mediaset Premium, come definiti all’allegato C, fosse inferiore a 1.710.000 unità alla data del 31 dicembre 2015 o l’ARPU fosse, alla stessa data, inferiore ad Euro 23,06, all’esito delle verifiche affidate al perito individuato in Deloitte & Touche s.p.a. con sede a Milano.

Ed il fatto che la clausola debba essere intesa come restrittivamente riferita alla sola ipotesi descritta è previsto testualmente dalla clausola 3.7 ove, sotto la rubrica “Elenco restrittivo dei diritti di recesso” si legge “Per maggiore chiarezza le parti riconoscono e convengono che Vivendi non avrà il diritto di recedere al presente Accordo in circostanze diverse da quelle indicate espressamente nella sezione 3”.

Non sussiste, fra le parti, alcuna contestazione in ordine al fatto che sia stata verificata positivamente dal perito l’osservanza delle soglie contrattuali delineate dalla clausola 3.2. lett a) e non può, dunque, essere ritenuta l’esistenza del diritto di recesso di Vivendi con riferimento alla situazione scoperta dopo la due diligence sulla base di tale clausola.

d) per il resto le garanzie relative specificamente agli indicatori fondamentali o alla completezza delle informazioni rilevanti, erano contenute nell’allegato L-1 dell’accordo relativo alle “Dichiarazioni e Garanzie RTI” la cui violazione avrebbe potuto comportare solo il risarcimento del danno secondo la previsione della clausola 6.2. ove si legge, infatti, che “RTI dovrà risarcire Vivendi o Target... il 100% di qualsiasi Danno subito da Vivendi o da Target come conseguenza di qualsiasi violazione delle Dichiarazioni e garanzie di RTI, essendo tuttavia convenuto che tale obbligo risarcitorio di RTI: a) sarà l’unico rimedio disponibile per Vivendi per qualsiasi Danno risarcibile...” (v. doc. 1 di parte attrice pag. 22).

Con riguardo, in particolare, al numero di abbonati e all’ARPU nel primo trimestre 2016 le parti avevano previsto alla clausola XXVI dell’allegato L-1 dell’accordo relativo a “Dichiarazioni e Garanzie RTI”, la garanzia da parte di RTI che “Il numero complessivo di Abbonati (così come definito nell’Allegato C del presente Contratto) non è sostanzialmente diminuito nel periodo tra il 1 gennaio 2016 e 31 marzo 2016” così come che “Il Ricavo Medio per Utente (ARPU) degli Abbonati ((così come definito nell’Allegato C del presente Contratto) non è sostanzialmente diminuito nel periodo tra il 1° gennaio 2016 e 31 marzo 2016.” e la violazione dell’impegno in questione, secondo la previsione della clausola 6.2 dell’accordo avrebbe potuto comportare solo il risarcimento del danno (v. doc. 10 di parte attrice a pag. 10).

Allo stesso modo, avrebbe potuto essere solo fonte di risarcimento del danno, la violazione dell’impegno generale alla completezza delle informazioni rilevanti, previsto dalla clausola XXVII dell’allegato L-1 sotto la rubrica “Informazioni e comunicazioni” secondo cui “Tutte le informazioni fornite da RTI, dalla Target e dai rispettivi consulenti a Vivendi e i rispettivi consulenti sono veritiere, precise e complete sotto tutti gli aspetti e non fuorvianti. Non sussistono fatti che non siano stati comunicati nel presente Contratto che siano stati oggetto o possano ragionevolmente essere oggetto di una modifica sostanzialmente pregiudizievole.” Fattispecie a cui è indubbiamente riferibile il deficit di completezza delle informazioni fornite dalle società attrici nel corso delle trattative sull’abnorme numero di richieste di recesso degli abbonati nel mese di dicembre 2015, l’elevato numero di recessi nel solo mese di gennaio 2016 e l’anomalia del costo delle promozioni straordinarie.

In sintesi la rilevanza degli indicatori fondamentali come convenzionalmente definiti ai fini dell’esercizio del diritto di recesso era tassativamente limitata all’ipotesi descritta nella richiamata clausola 3.2 lett a) per il numero di abbonati e l’ARPU al 31 dicembre 2015, pacificamente non verificatasi, mentre ogni questione relativa al numero di abbonati e all’ARPU nel primo trimestre 2016 ed alle informazioni lacunose sul costo delle promozioni sostenute per mantenere i parametri entro le soglie contrattuali, avrebbe potuto avere rilievo solo ai fini del risarcimento del danno.

e) alla clausola 3.1 del contratto era sancita, infine, la previsione di chiusura contenente la regolamentazione del potere di Vivendi di rifiutare la conclusione del contratto definitivo a seguito del rilievo di “qualsiasi passività” nel corso della due diligence.

La clausola nella sua formulazione involuta e cervellotica ha dato adito a contestazioni fra le parti anche nella sua traduzione e, nel testo originale in lingua inglese, recita “or the avoidance of any doubt, without prejudice (i) to the indemnity obligations of RTI set forth in Section 6 below and (ii) to the termination right of Vivendi under this Section 3, and absent any wilful misconduct (dolo) or gross negligence (colpa grave), any liability possibly detected by Vivendi and its advisors during the Due Diligence will not prevent the completion of Closing at the terms and conditions set forth in this Agreement.”

Si tratta di una pattuizione ricalcata sulla tipica clausola di garanzia dell’acquirente di partecipazione sociali dal rischio dell’emersione successiva di esposizioni debitorie o poste patrimoniali passive preesistenti ma scoperte solo dopo l’acquisizione.

L’espressione “any liability” che le parti riferiscono, l’una al termine “responsabilità” l’altra al termine “passività”, deve essere, quindi, intesa come riferita ad “ogni passività” nel senso di esposizione debitoria o posta patrimoniale passiva, scoperta da Vivendi e dai suoi consulenti nel corso della due diligence così che la clausola tradotta in italiano recita “A scanso di dubbi, fatti salvi: (i) gli obblighi di indennizzo di RTI in base alla Sezione 6 e (ii) il diritto di Vivendi di recedere dal Contratto secondo quanto previsto dalla presente Sezione 3, in mancanza di dolo o colpa grave, qualsiasi passività eventualmente rilevata da Vivendi e dai suoi consulenti nel corso della Due Diligence, non impedirà il completamento del Closing secondo i termini e le condizioni del presente Accordo.”

La clausola, intesa in correlazione alle altre previsioni richiamate ed in particolare con la previsione dell’art. 3.7 che richiama all’interpretazione restrittiva delle pattuizioni relative ai diritti di recesso, stabilisce essenzialmente:

- la regola generale, secondo cui nessuna passività rilevata da Vivendi e dai suoi consulenti può impedire il completamento del Closing secondo i termini e le condizioni dell’accordo, ferme restando le previsioni indennitarie ed il diritto di recesso specificamente garantiti;

- e l’eccezione, con cui le parti fanno salva l’ipotesi che la passività sia stata occultata con dolo o colpa grave.

Il legittimo rifiuto di pervenire alla sottoscrizione del contratto definitivo in relazione all’esito negativo della due diligence presuppone, dunque,

- l’emersione nel corso della due diligence di esposizioni debitorie o poste passive ben individuate e determinate nella loro consistenza, già esistenti nel patrimonio della società target, diverse da quelle già oggetto delle previsioni di garanzia indennitaria o di specifico diritto di recesso;

- occultate dalla cessionaria con dolo o colpa grave, contestate prima della scadenza del termine previsto per la conclusione del contratto definitivo.

Nella fattispecie in esame Vivendi si è avvalsa della facoltà di recesso sottesa alla clausola in questione solo nella comparsa di risposta, lamentando l’occultamento doloso da parte di Mediaset e RTI di dati relativi al numero di abbonati e all’ARPU rilevanti per la valutazione dell’attendibilità del business plan sotto il profilo della futura redditività dell’impresa.

Non ha invece mai lamentato, prima della scadenza del termine per la conclusione del contratto definitivo o nell’immediatezza della conclusione delle operazioni di due diligence, l’avvenuto rilievo da parte di Deloitte France, incaricata delle operazioni, di debiti o poste passive già esistenti nel patrimonio di Mediaset Premium e ben individuati nella loro consistenza.

Ed è evidente, al riguardo, che non possano essere equiparate alle passività a cui si riferisce la clausola le problematiche di redditività futura evidenziate con riferimento all’entità abnorme dei costi già sostenuti per le promozioni straordinarie onde evitare la dispersione della clientela. Si tratta, infatti, di una previsione futura di difficoltà dell’impresa ad assicurare la produzione di utili nella misura auspicata dal businness plan che la Deloitte ha formulato nella relazione senza, però, tradurla nell’emersione di una posta passiva attuale ben determinata nella sua consistenza e, dunque, tale da essere considerata ai sensi della previsione contrattuale sopra indicata.

Né può assumere rilievo la mancata svalutazione dei diritti calcistici all’inizio dell’anno 2016, che Vivendi ha addotto a giustificazione del suo comportamento solo con la memoria depositata ai sensi dell’art. 183 comma 6 n. 1 c.p.c. (v. pag. 18 della memoria) e che, all’epoca, non era, dunque, stata di sicuro ragione dell’interruzione del rapporto, come risulta dalla prima lettera di contestazione degli esiti della due diligence, risalente al 12 maggio 2016, che non vi fa alcun riferimento e si limita a lamentare il livello abnorme dei costi delle promozioni sostenute nel primo trimestre del 2016 per mantenere artificiosamente il numero di abbonati con grave pregiudizio della futura redditività (v. doc. 8 di parte attrice).

Del resto la relazione di due diligence aveva semplicemente ipotizzato come “una possibilità da valutare” in rapporto alla situazione analoga verificatasi nel triennio antecedente e non come circostanza implicante l’emergere di una passività attuale, la svalutazione dei diritti alla trasmissione delle partite di Serie A. (v. doc. 79 b) di parte convenuta a pag. 70 ove la Deloitte France incaricata della due diligence afferma “La somma pagata nel 2012 da RTI per l’acquisizione dei diritti della Serie A è stata maggiore dei ricavi generati dalle offerte calcistiche, per questo motivo RTI ha iscritto una svalutazione di 216 milioni di EUR nel triennio (2013-2015) al fine di registrare il fair value dei diritti. Riteniamo che MP si trovi nella stessa situazione al momento dell’acquisto dei diritti della Serie A per la stagione 2015-2018, quindi la svalutazione della Serie A è una possibilità da valutare. Si osserva che la svalutazione potrebbe essere effettuata solo sulla totalità dei diritti calcistici perché MP non monitora le tendenze di audience per la Serie A.”)

Ed è evidente, quindi, l’inapplicabilità della clausola in questione a giustificazione del comportamento tenuto da Vivendi in pendenza della condizione sospensiva.

Dal senso complessivo delle clausole esaminate emerge, in sintesi, che il contratto preliminare era aleatorio quanto al risultato dell’attività di impresa della società target al momento della stipulazione del contratto definitivo e che l’unica garanzia accordata a Vivendi riguardava la misura della posizione finanziaria netta con le annesse garanzie relative agli indicatori fondamentali della redditività dell’azienda, costituiti dal numero di abbonati e dall’ARPU convenzionalmente definitivi, che solo nelle ipotesi tassative dell’art. 3.2. prevedevano la facoltà di recesso dell’acquirente, mentre, in ogni altro caso, ivi compresa l’incompletezza delle informazioni ad essi relative, il risarcimento del danno era pattuito come l’unico rimedio attuabile.

All’esito dell’esame delle singole clausole e dal loro senso complessivo si può concludere, quindi, che Vivendi, nella situazione descritta, avrebbe senza dubbio potuto invocare il rimedio risarcitorio per il deficit di informazioni di impatto rilevante sugli indicatori fondamentali dell’impresa, ma non esercitare il diritto di recesso o rifiutare la stipulazione del contratto definitivo di scambio azionario.

L’interpretazione letterale e contestuale delle clausole contrattuali che induce a ritenere estraneo alle previsioni negoziali il recesso di fatto esercitato dal contratto condizionato da Vivendi con l’impedire l’avveramento della condizione, trova piena conferma nel suo comportamento immediatamente successivo all’esecuzione della due diligence allorché, con la lettera del 12 maggio 2016, ancorché fosse ancora nei termini per l’esercizio del diritto di recesso di cui alla clausola 3.2. lett. a) o alla clausola 3.1, si è ben guardata dall’invocare lo scioglimento unilaterale del vincolo dichiarando semplicemente la disponibilità “a trovare una soluzione amichevole a questa situazione” (v. doc. 8 di parte attrice), ribadita sino al giorno prima che la vicenda divenisse di pubblico dominio, con la lettera del 25 luglio 2016, contenente la proposta di un nuovo accordo di partnership diversamente strutturato (v. doc. 2 di parte attrice).

In sintesi, quindi, l’aleatorietà del contratto e la tassatività delle ipotesi di risoluzione e recesso contemplate nell’accordo, in particolare con riferimento agli indicatori fondamenti di funzionamento delle imprese del comparto, inducono a ritenere che la rivelazione all’esito della due diligence dei dati taciuti da Mediaset nel corso delle trattative non possa rilevare quale ragione giustificatrice del rifiuto di dar corso all’operazione programmata, tanto più che nessuna garanzia era stata direttamente accordata a Vivendi sulla realizzabilità del business plan.

Le clausole liberamente accettate da Vivendi e interpretate nel loro complesso evidenziano essenzialmente l’intento comune delle parti di costituire l’alleanza strategica per l’espansione nello spazio europeo e internazionale anche a prescindere dall’effettivo valore di Mediaset Premium che sarebbe servita a Vivendi semplicemente quale “veicolo” per l’ingresso nel mercato italiano della televisione a pagamento.

Del resto la preponderante importanza per Vivendi della costruzione dell’alleanza strategica rispetto al valore di acquisizione di Mediaset Premium è confermata dal fatto che dopo la ormai definitiva “rottura” dell’accordo, nel mese di dicembre 2016, ha proceduto all’acquisto di una consistente partecipazione azionaria di minoranza nel capitale di Mediaset, peraltro, già autorizzata dal Consiglio di Sorveglianza nella seduta del 18 febbraio 2016 (v. doc. 59 di parte attrice), pur sapendo che aveva in seno, tramite la sua controllata al 100% RTI, una fonte di gravi perdite come Mediaset Premium.

Priva di rilevanza ai fini dell’individuazione del contenuto dell’accordo ed in ultima analisi dell’imputazione della mancata attuazione del programma negoziale è, invece, la ricerca a posteriori del “movente” sotteso al comportamento contrattuale di ciascuno dei contraenti che ha affaticato le difese di entrambe le parti in una sorta di processo alle intenzioni, con uno “strascico” di istruttoria, dopo la rimessione della causa in decisione, del tutto inusuale.

Appurare, infatti, che Vivendi abbia preordinato l’inadempimento del contratto per far crollare in borsa il valore del titolo ed agevolare la scalata ostile a Mediaset o che Mediaset abbia inscenato la reazione mediatica e giudiziaria al rifiuto di Vivendi di tener fede all’accordo per celare i risultati economici deludenti del gruppo, sono circostanze di contorno riconducibili alla categoria dei semplici motivi, rimasti estranei all’accordo e al suo contenuto, la cui incidenza è relegata dall’ordinamento entro gli angusti confini del motivo illecito comune di cui all’art. 1345 c.c., evidentemente non configurabile nella fattispecie descritta.

L’inadempimento degli obblighi preliminari che ha reso impossibile l’avveramento della condizione è imputabile a Vivendi che deve, pertanto, risarcire il danno che le società attrici avranno provato di aver subito in conseguenza della definitiva inefficacia del vincolo.

Il pregiudizio eventualmente derivante dalla “rottura” di un vincolo rimasto inefficace per colpa di uno dei due contraenti è un danno da responsabilità contrattuale connesso alla violazione dell’obbligo generale di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione o, come nel caso di specie, degli obblighi preliminari che ne costituiscono espressa specificazione, risarcibile nei soli limiti in cui sia conseguenza immediata e diretta, ai sensi dell’art. 1223 c.c., dell’inattuazione della parte del programma negoziale preordinata a favorire l’avveramento della condizione o a disciplinare il rapporto fra le parti in pendenza della condizione, non potendo, ovviamente, il pregiudizio essere riferito all’inadempimento delle obbligazioni principali dedotte in contratto, mai sorte in ragione dell’inefficacia del vincolo.

Al riguardo Mediaset e RTI, anche quale incorporante della terza intervenuta Mediaset Premium, dopo il mutamento della domanda di adempimento del contratto in risoluzione, hanno richiamato la descrizione dei danni subiti contenuta nella prima memoria di trattazione da intendersi nella “prospettiva dell’inadempimento definitivo del contratto da parte di Vivendi” (v. memoria di parte attrice in data 29.1.2019 alla pag. 2 e memoria depositata ai sensi dell’art. 183 comma 1 c.p.c. alle pagine da 35 a 37).

Non resta, quindi, che procedere all’esame delle singole voci di danno esposte dalle due società attrici, con la precisazione che il danno lamentato da Mediaset Premium con l’atto di intervento a seguito della fusione per incorporazione dovrà essere riferito a RTI s.p.a., senza alcuna possibilità di duplicazione dei rimedi risarcitori in relazione alla prospettazione dello stesso pregiudizio come danno al valore della partecipazione sociale in Mediaset Premium o come danno diretto al patrimonio della società partecipata.

A) il danno di Mediaset e RTI corrispondente ai costi inutilmente sostenuti per le consulenze di legali e advisory in relazione alla formazione del contratto nonché per la consulenza e difesa legale dopo la conclusione del contratto nelle controversie civili e amministrative sorte dall’inadempimento di Vivendi, per la somma complessiva di € 2,8 milioni di euro.

Si tratta del tipico danno emergente connesso all’inutile conclusione del contratto rimasto improduttivo di effetti, risarcibile limitatamente ai costi di consulenza sostenuti da ciascuna delle società attrici per la negoziazione, la redazione e la sottoscrizione del contratto, divenuti inutili come conseguenza immediata e diretta della risoluzione del vincolo.

Non sono, invece, configurabili come pregiudizio direttamente derivante dall’inadempimento né sono equiparabili a costi inutilmente sostenuti, le spese legali per la difesa nei diversi giudizi civili e amministrativi scaturiti dalla vicenda, soggette alla regolamentazione delle spese processuali secondo il principio della soccombenza nell’ambito del singolo giudizio.

Ai fini della prova del danno corrispondente ai costi di assistenza professionale nella negoziazione e conclusione del contratto è necessario che ciascuna delle due parti dimostri, quantomeno, di aver assunto l’obbligazione di pagamento del compenso nei confronti degli studi professionali di consulenza incaricati, essendo sufficiente a determinare il pregiudizio economico lamentato anche il solo sorgere del debito.

Al riguardo le società attrici si sono limitate a produrre le relazioni degli advisor finanziari JP Morgan e Credit Suisse, incaricati di esprimere il parere di congruità del corrispettivo pattuito nel contratto, ai documenti n. 41 e 42 ed alcune parcelle pro forma o fatture allegate alla relazione del consulente di parte prof. Massari di cui al documento 95.

Dall’esame della documentazione in questione risulta che per l’assistenza legale e la consulenza di advisor strettamente relative alla negoziazione e sottoscrizione formazione del contratto,

a) RTI s.p.a. ha assunto il debito risultante da:

Parcella pro forma n. 2016PC1710 del 14 ottobre 2016 dello studio Chiomenti di € 281.249,45 (allegato II.2 doc. 95)

Parcella Pro-forma n. 2016 PC 1245 del 19 luglio 2016 dello Studio Chiomenti di 197.915,14 (allegato II.4) e relativa Fattura n. 2016 FC 1892 del 2 settembre 2016 di pari importo (allegato II.5) Fattura n. 202/2016 del 22.6.2016 della Servif s.r.l. di € 35.002,48 (doc. II.9) per un totale di € 514.167,07;

b) Mediaset s.p.a. ha assunto il debito risultante da:

Parcella Pro forma n. 2016PC1711 del 14 ottobre 2016 dello Studio Chiomenti di € 281.249,48 (allegato II.3 doc. 95)

Fattura di Credit Suisse del 20 aprile 2016 n. XBUBLS di € 201.708 (III.1 doc. 95);

Fattura di J.P. Morgan del 17 maggio 2016 n. 1600576LON di € 719.461,80 (doc. III.2 doc. 95) per un totale di € 1.202.419,28.

L’unica documentazione relativa ai debiti assunti per costi di assistenza e consulenza strettamente connessi alla stipulazione del contratto è quella anzi esposta mentre non vi è traccia nel fascicolo di causa delle altre fatture indicate alla pag. 15 della relazione del consulente di parte attrice prof. Massari.

Non rientrano nell’ambito del danno risarcibile, come già spiegato, i debiti risultanti da parcelle o fatture relative all’assistenza nei diversi giudizi scaturiti dall’inattuazione del contratto né i costi sostenuti per il pagamento del compenso dei professionisti incaricati dell’assistenza legale sulla vicenda della scalata ostile, non legati da nesso di causalità immediata e diretta con la “rottura” del vincolo negoziale.

Il diritto al risarcimento con riferimento alla voce di danno in questione deve essere, pertanto, riconosciuto a RTI s.p.a. nella misura di € 514.167,07e a Mediaset s.p.a. nella misura di € 1.202.419,28.

B) il danno di Mediaset corrispondente ai costi finanziari sostenuti nella misura di complessivi € 8.520.000 per l’estinzione anticipata del finanziamento di 400 milioni di euro contratto nel maggio 2011 con MedioBanca e l’estinzione anticipata di quattro derivati “collar” del valore di 50 milioni ciascuno, stipulati due con Mediobanca e due con Unicredit tra il mese di luglio ed ottobre 2012.

La società attrice ha sostenuto, al riguardo, di essere stata costretta, nel mese di aprile 2016, a sopportare i costi delle penali per l’estinzione anticipata dei rapporti in questione perché la stipulazione dell’accordo con Vivendi sarebbe stata incompatibile con taluni “covenants” contenuti nel contratto di finanziamento e nei contratti su derivati “collar”, senza mai neanche indicare, nel corso della trattazione ed istruzione della causa, quali sarebbero state le specifiche previsioni ostative alla prosecuzione dei rapporti in questione dopo la conclusione del contratto.

Dal contratto di finanziamento si evince solo la previsione, all’art. 14, di una sterminata serie di limiti dispositivi e gestionali (v. doc. 46 di parte attrice all’art. 14, che si snoda da pag. 39 a pag. 50 del documento), per lo più rimovibili con il consenso della banca finanziatrice, mentre nessuna clausola potenzialmente ostativa alla conclusione dell’accordo di scambio azionario con Vivendi, risulta dalla documentazione prodotta con riferimento ai contratti su derivati “collar” (v. doc. 47 e 48 di parte attrice).

Non vi è, dunque, alcuna prova che Mediaset si sia determinata all’estinzione anticipata del finanziamento e dei contratti su derivati, peraltro, diversi mesi prima della data prevista per il closing, in ragione dell’incompatibilità dell’operazione di scambio azionario programmata, con impegni inderogabili assunti nei contratti in questione.

La mancanza di prova del nesso causale tra la scelta imprenditoriale in questione e la risoluzione del vincolo è, del resto, più che evidente se si considera, come rilevato dalla difesa della società convenuta, che la decisione di procedere all’estinzione del contratto di finanziamento era funzionale alla necessità di riduzione dei costi derivanti dagli impegni finanziari, come illustrata nel bilancio consolidato di Mediaset relativo all’anno 2016 (v. doc. 148 di parte convenuta alla pag. 84 ove si legge che “Un particolare focus è stato riservato all’attività di consolidamento del debito finanziario attraverso la rinegoziazione di linee di credito committed per un importo totale di 750 milioni di euro con l’obiettivo di ridurre i costi e allungare le scadenze.”).

Mentre nessun danno Mediaset potrebbe lamentare di aver subito a seguito dell’estinzione dei quattro derivati collar di 50 milioni che ha comportato, al più, un risparmio di costi, posto che, per quanto risulta dal bilancio consolidato relativo all’anno 2015, generavano passività per 5,2 milioni di euro (v. doc. 87 di parte convenuta a pag. 182).

In altri termini non sussiste alcuna prova che l’estinzione del contratto di finanziamento e dei contratti su derivati “collar” operata da Mediaset nel mese di aprile 2016, sia dipesa dalla necessità di superare ostacoli insormontabili previsti in non meglio specificati “convenants” invece che dall’impellente necessità di contenere il debito finanziario.

La richiesta risarcitoria con riferimento alla voce di danno in questione è priva di fondamento.

C) il danno di Mediaset corrispondente al costo di 33 milioni di euro sostenuto per la sottoscrizione di strumenti finanziari mirati alla copertura del rischio di variazione del valore di borsa dei titoli Vivendi, affrontato esclusivamente in funzione dell’operazione di scambio azionario programmata.

Nei propri scritti difensivi la società attrice ha sostenuto di aver subito il danno corrispondente al costo affrontato per l’acquisto degli strumenti finanziari derivati di protezione che, per quanto emerge dalla relativa documentazione, erano costituiti da opzioni put europee su azioni ordinarie di Vivendi, negoziati l’11 aprile 2016, con Credit Suisse, BNP Paribas, J.P. Morgan Securities Plc, a scadenze diverse, per tranche variamente scaglionate tra il mese di agosto e settembre 2016 (v. doc. 51 di parte attrice).

La relazione del consulente di parte Prof. Massari, allegata a supporto probatorio, si è limitata a fornire la somma matematica del costo sostenuto per ciascun contratto come desumibile dal documento n. 51, senza in alcun modo spiegare le ragioni per cui l’esborso si sarebbe tradotto in danno per la società attrice (v. doc. 95 a pag. 17).

A prescindere da ogni possibile considerazione sul fatto che si tratti di esborso causalmente connesso alla conclusione del contratto rimasto inadempiuto, posto che la valutazione della opportunità dell’acquisto di strumenti finanziari di protezione è pur sempre frutto di una scelta imprenditoriale discrezionale del contraente in alcun modo imposta dal programma contrattuale, è necessario chiarire che, in linea generale, non ogni costo sostenuto dal contraente in occasione della conclusione del contratto successivamente risolto, per l’acquisto di prodotti o servizi connessi con l’assunzione dell’impegno negoziale, si traduce in un danno ma solo quello rivelatosi del tutto inutile a seguito del sopravvenuto scioglimento del vincolo, come le già esaminate spese di consulenza sostenute per la trattativa e la redazione del contratto.

Ciò in quanto i costi sostenuti per la conclusione di contratti a prestazioni corrispettive comportano la fruizione di benefici e ricavi che non necessariamente vengono meno a causa della risoluzione del vincolo negoziale che vi aveva dato occasione.

La configurabilità del danno nella situazione descritta richiede, dunque, necessariamente la deduzione e la prova che l’esborso si sia rivelato del tutto inutile in conseguenza del fallimento dell’operazione negoziale programmata.

Nel caso degli strumenti finanziari derivati in questione la società attrice si è limitata ad equiparare tout-court il costo sostenuto per il loro acquisto al danno, dimenticando che le opzioni put alla scadenza possono consentire di ricavare profitto a prescindere dal possesso delle azioni sottostanti e che l’acquisto dello strumento finanziario derivato compiuto per ragioni di protezione dal rischio di oscillazione di un dato titolo assume natura meramente speculativa in mancanza nel portafoglio del titolo sottostante ma non necessariamente si traduce in una perdita.

Gli strumenti finanziari derivati sono, infatti, caratterizzati proprio dal fatto che prescindono dal possesso e dal trasferimento dei titoli sottostanti, essendo strutturati essenzialmente in modo tale da regolare il rapporto alla scadenza in funzione del prezzo del titolo sottostante o dell’indice di borsa di riferimento dalla cui oscillazione dipende la perdita o il guadagno.

Gli strumenti finanziari in questione sono, in particolare, strutturati in modo tale che rilevi ai fini della valutazione della convenienza ad esercitare l’opzione, unicamente il prezzo prefissato per la vendita dei titoli ad una determinata scadenza e il valore di borsa del titolo di riferimento.

L’acquisto di strumenti finanziari derivati in vista della protezione dall’oscillazione del valore di borsa di determinate azioni non diviene, dunque, completamente inutile con il fallimento dell’operazione di scambio azionario programmata ma semplicemente si traduce in un acquisto speculativo foriero di pregiudizio patrimoniale solo se l’oscillazione del valore del titolo sottostante, al ribasso o al rialzo, si sia verificata in direzione tale da determinare la chiusura del contratto in perdita.

Nessuna allegazione ha fatto Mediaset sulla sorte degli strumenti finanziari derivati in questione alla scadenza e non vi è, dunque, alcuna prova che il costo sostenuto per il loro acquisto si sia tradotto in tutto o in parte in una perdita patrimoniale.

La domanda risarcitoria con riferimento alla voce in questione deve, pertanto, essere respinta.

D) Il danno di RTI per la perdita di valore della sua partecipazione sociale in Mediaset Premium derivato dalla compromissione del patrimonio di Mediaset Premium per effetto di decisioni commerciali imposte da Vivendi nel periodo di gestione interinale e dalla riduzione di carattere permanente del valore di mercato della partecipazione di RTI in Mediaset Premium per effetto delle dichiarazioni pubbliche rese da Vivendi in merito all’inattendibilità del suo business plan.

Le categorie di danno descritte sono state originariamente prospettate dalla società attrice come profili diversi di danno riflesso al valore della sua partecipazione azionaria in Mediaset Premium, derivato dalla compromissione del patrimonio della società target per effetto dell’inadempimento contrattuale di Vivendi alle regole della gestione interinale o dell’illecito extracontrattuale di diffamazione, e la difesa della società convenuta aveva reagito sollevando l’eccezione di difetto di legittimazione ad agire della socia per far valere il diritto al risarcimento spettante solo alla società.

La questione, al riguardo, è stata superata dall’intervento volontario autonomo, spiegato in giudizio da Mediaset Premium per far valere il suo diritto al risarcimento con riferimento alle stesse voci di danno, e, poi, dalla sua fusione per incorporazione nella società controllante attrice RTI s.p.a. che ha, per tale via, acquisito la legittimazione a proseguire nel rapporto sostanziale e processuale dell’incorporata, ai sensi dell’art. 2504 bis comma 1 c.c.

Tuttavia la società attrice ha continuato a mantenere una posizione ambigua nel corso del processo e solo nella comparsa conclusionale pare aver abbandonato le pretese di risarcimento del danno riflesso al valore della sua partecipazione sociale chiedendo, nella sua qualità di incorporante di Mediaset Premium, il risarcimento delle voci di danno in questione come pregiudizio direttamente riferibile al patrimonio sociale dell’incorporata (v. comparsa conclusionale a pag. 32 nota 25).

Per fugare ogni dubbio a fronte dell’ambiguità serbata dalla società attrice nel corso del giudizio è opportuno, comunque, rilevare che il pregiudizio al patrimonio sociale – suscettibile di riflettersi indirettamente nella riduzione del valore della partecipazione sociale che ne costituisce frazione ideale - è un danno riferibile solo alla società che, quale soggetto giuridico distinto ed autonomo rispetto al socio, è l’unica legittimata a farlo valere per ottenere un ristoro da cui deriva, al contempo, l’eventuale, totale o parziale reintegrazione anche del valore della partecipazione.

Del resto, il principio della risarcibilità soltanto del danno direttamente causato dall’inadempimento o dell’illecito (artt. 1223, 2043 c.c.) presiede alla regolazione delle fattispecie di cui qui si discute, che non rientrano tra quelle eccezionali in cui è stabilita la risarcibilità del danno indiretto (artt. 2394, 2497, comma 1, c.c.).

Invero la Corte di cassazione ha costantemente affermato: “Qualora una società di capitali subisca, per effetto dell’illecito commesso da un terzo, un danno, ancorché esso possa incidere negativamente sui diritti attribuiti al socio dalla partecipazione sociale, nonché sulla consistenza di questa, il diritto al risarcimento compete solo alla società e non anche a ciascuno dei soci, in quanto l’illecito colpisce direttamente la società e il suo patrimonio, obbligando il responsabile al relativo risarcimento, mentre l’incidenza negativa sui diritti del socio, nascenti dalla partecipazione sociale, costituisce soltanto un effetto indiretto di detto pregiudizio e non conseguenza immediata e diretta dell’illecito. (Nella specie, le S.U., nell’enunciare l’anzidetto principio, hanno confermato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda con cui una società per azioni, socia di una compagnia di assicurazioni s.p.a., aveva dedotto la responsabilità della società di revisione, incaricata della certificazione del bilancio della società partecipata, per il danno patito dalla quota di partecipazione, a seguito delle condotte illecite ascritte alla società di revisione)” (Cass., sez. un., n. 27346 del 2009. Conformi: Cass., sez. un. n. 22659 del 2006; Cass., n. 2087 del 2012; Cass., n. 4548 del 2012).

Nella situazione descritta il socio non può, quindi, far valere neanche come danno riflesso, quello che sotto il profilo giuridico è un danno solo della società titolare del patrimonio colpito dall’evento lesivo.

Ne deriva che la domanda ambiguamente proposta da RTI nella duplice veste di socio attinto dal danno riflesso al valore della sua partecipazione in Mediaset Premium e di società incorporante subentrata nel diritto al risarcimento del danno subito dall’incorporata Mediaset Premium per la perdita di valore del suo patrimonio può essere esaminata esclusivamente sotto quest’ultimo profilo.

Procedendo ora all’esame delle singole categorie di danno prospettate, il pregiudizio economico lamentato per effetto delle decisioni commerciali imposte da Vivendi nel periodo di gestione interinale di Mediaset Premium, si traduce nella compromissione del patrimonio sociale della target ed è, quindi, un danno riferibile solo a Mediaset Premium, risarcibile a titolo di responsabilità extracontrattuale, trattandosi di soggetto estraneo al contratto di scambio azionario rimasto inefficace.

Nella categoria di danni in questione la società attrice ha lamentato che, nel periodo seguito alla sottoscrizione dell’accordo dell’8 aprile 2016, Vivendi si sarebbe sottratta, perlomeno dal mese di maggio 2016, al dovere di collaborare in buona fede con RTI nella gestione interinale di Mediaset Premium, oggetto di specifica regolamentazione alla clausola 5.1 del contratto, non riscontrando le richieste di autorizzazione al compimento dei diversi atti di gestione e imponendo strategie commerciali incompatibili con la realizzazione delle previsioni del business plan.

In particolare durante il periodo di gestione interinale Vivendi avrebbe,

- da un lato imposto la rinnovazione degli accordi di distribuzione tra Mediaset Premium e Eurosport S.A.S. per i canali Investigation Discovery, Eurosport 1 e Eurosport 2, fino al 31 luglio 2019, e tra RTI e The Walt Disney Company Italia s.r.l. per i canali Disney Channel, Disney Channel + 1 e Playhouse Channel, fino al 31 luglio 2019: decisioni, queste, che non sarebbero state assunte ove Mediaset Premium avesse potuto decidere autonomamente e che avrebbero generato il danno corrispondente al costo affrontato dalle due società per le fee relative alle licenze di distribuzione dei contenuti, pari a complessivi € 68 milioni di euro (v. relazione del consulente di parte Prof Massari di cui al doc. 95 di parte attrice a pag. 18 che determina in € 58.479.000 il costo sostenuto direttamente da Mediaset Premium nel triennio successivo a seguito del rinnovo del primo contratto e in € 9.713.000 il costo che avrebbe sostenuto RTI nel periodo da luglio 2016 a settembre 2016, pari a complessivi € 68.192.000);

- dall’altro posto il veto all’attuazione di una strategia commerciale di Mediaset Premium per il periodo luglio dicembre 2016, mirata ad abbassare il prezzo di accesso ai contenuti Premium e ad incrementare il parco abbonati, con conseguente danno derivato dalla differenza tra l’incremento del numero di abbonati atteso e l’incremento effettivamente registrato nel periodo per un valore di circa 41 milioni di euro (v. relazione prof. Massari di cui al doc. 95 a pag. 22 che quantifica il danno in di € 41.382.448,71).

L’accertamento dell’imputabilità a Vivendi di voci di danno che complessivamente superano i cento milioni di euro presuppone, innanzitutto, la prova rigorosa che Vivendi, nel periodo della gestione interinale seguita alla stipulazione dell’accordo dell’8 aprile 2016, abbia effettivamente imposto la rinnovazione dei contratti di distribuzione e posto il veto alle strategie commerciali proposte da Mediaset Premium.

Al riguardo è necessario, innanzitutto, chiarire che, contrariamente a quanto affermato dalla società attrice, nella clausola 5.1. dell’accordo non è affatto regolata la gestione interinale di Mediaset Premium, essendo prevista solo la garanzia di RTI di impegnarsi “a far sì che, nel periodo compreso tra la data del presente atto e la data di Chiusura,... Target sarà gestita in conformità a leggi e regolamenti applicabili, in modo prudente e conforme agli usi a seconda delle circostanze, mantenendo l’attività come impresa ben avviata... senza contrarre obbligazioni, oneri o debiti e senza compiere azioni che, per loro natura scopo o durata eccedono i limiti dell’esercizio ordinato e normale della sua attività..”, seguita da una serie dettagliata di limitazioni specifiche in relazione alla gestione non ordinaria dell’impresa (v. doc. 1 di parte attrice a pag. 19).

Per quanto emerge dallo scambio epistolare, di fatto, probabilmente per ovviare alle limitazioni derivanti dalla clausola in questione e non incorrere in responsabilità, la dirigenza di Mediaset Premium, subito dopo la conclusione del contratto, aveva instaurato la prassi di consultare lo staff di Vivendi, secondo modalità concordate, per le operazioni e scelte commerciali correnti, sottoponendole ad autorizzazione specifica (v. doc. 52 di parte attrice e doc. da 189 a 200 di parte convenuta).

Le parti avevano, così, instaurato una collaborazione nella gestione interinale, iniziata nel mese di maggio 2016 ma incrinatasi già dal 7 luglio 2016, allorché Laurence Daniel di Vivendi aveva comunicato all’interlocutore di Mediaset Premium che “in pendenza dell’esito delle trattative in corso tra i massimi esponenti di Mediaset e Vivendi con riferimento ai termini e condizioni dell’acquisizione di Mediaset Premium, lasciamo alla dirigenza di Mediaset Premium le decisioni sulle operazioni elencate nella tabella allegata, nel miglior interesse della Società.” (v. doc. 21 di parte attrice).

Nel periodo di gestione interinale coordinata fra le parti non risulta da nessuno dei documenti allegati che Vivendi abbia imposto, cioè preteso nonostante la volontà contraria della dirigenza di Mediaset Premium, la rinnovazione degli accordi di distribuzione con Eurosport S.A.S e con The Walt Disney Company Italia s.r.l., la prima, peraltro, riferita ad epoca successiva alla rottura dei rapporti dalle parti per quanto emerge dalla documentazione prodotta da parte attrice (v. doc. 54 recante la data del 23 settembre 2016 e doc. 55 recante la data del 24 gennaio 2017).

In particolare dalla lettera del 6 luglio 2016 che Marco Leonardi di Mediaset ha inviato a Marc Heler di Vivendi, indicata da parte attrice a supporto probatorio dell’assunto dell’imposizione, emerge piuttosto la natura concordata delle scelte in questione rispetto alle quali il Leonardi chiede di “condividere alcuni punti e decidere come procedere” affermando di aver provveduto ad estendere il contratto di distribuzione dei canali Disney fino al 30 settembre 2016 “come da tue indicazioni” e di aver “chiuso il deal, come da tuo ok a procedere” con riferimento ai canali Eurosport/ Investigation Discovery e chiedendo indicazioni per “la fase di stesura del contratto insieme a noi.” (v. doc. 62 di parte attrice).

Il tono della lettera riflette tutt’altro che l’atteggiamento di chi subisce un’imposizione in contrasto con la sua volontà ed il riferimento all’autorizzazione positiva a procedere presuppone necessariamente una richiesta di consenso avanzata su iniziativa della stessa Mediaset Premium.

Non c’è, poi alcuna traccia del veto che Vivendi avrebbe apposto alla strategia commerciale proposta da Mediaset Premium per il periodo luglio- dicembre 2016 al fine di ampliare il parco abbonati, nei due documenti indicati a supporto probatorio dell’assunto, caricati in data room il 31 maggio 2016 senza alcuna indicazione del mittente e del destinatario delle richieste (v. doc. 67 e 68 di parte attrice).

Difficilmente, del resto, la mancata risposta alle istanze di autorizzazione, in epoca successiva all’inizio delle contestazioni fra le parti, potrebbe essere equiparata ad un divieto di adottare le misure commerciali ritenute più opportune nell’interesse di Mediaset Premium, costituente l’essenza della garanzia assunta da RTI di mantenere “l’attività come impresa ben avviata” prevista dalla clausola 5.1.

Ed infatti, ove aveva ritenuto indispensabile procedere anche senza aver ricevuto un’autorizzazione espressa del personale di Vivendi, la dirigenza di Mediaset Premium lo aveva fatto, come risulta dal documento n. 22 di parte attrice in cui, con riferimento alle richieste riassunte nella email del 7 luglio 2016 ore 14.45, Enrico Gerardo di Mediaset aveva comunicato a Laurence Daniel di Vivendi che “con riferimento alle seguenti richieste, considerandone l’impatto economico positivo e visti i tempi tecnici necessari per il relativo sviluppo/attuazione, non possiamo più permetterci di ritardarne l’avvio. Faremo quindi in modo da iniziare lunedì, ritenendoli approvati da parte tua se non ci perverranno tue espresse obiezioni entro tale giorno.”).

Tanto è vero che non risulta oggetto di contestazione che Mediaset Premium, già il 15 luglio 2016, aveva avviato la campagna di promozione mediante consistenti offerte al ribasso del prezzo degli abbonamenti, come emerge dai documenti n. 76 a) e 76 b) di parte convenuta.

A prescindere dall’inconfigurabilità delle condotte dannose attribuite alla società convenuta, in ogni caso, le pretese risarcitorie avanzate da parte attrice relative alla gestione interinale di Mediaset Premium sono, infondate, già solo per come sono prospettate.

Per quanto riguarda la richiesta di risarcimento del danno di oltre 68 milioni di euro, lamentato considerando senz’altro una perdita patrimoniale per Mediaset Premium il complesso dei costi da sostenere a fronte della rinnovazione triennale dei contratti di distribuzione dei contenuti con la Eurosport S.A.S e trimestrale dei contratti di distribuzione con The Walt Disney Company Italia s.r.l, valgono le considerazioni già svolte in ordine ai limiti della configurabilità del pregiudizio per l’aver affrontato dei costi che, comunque, abbiano comportato il beneficio di godere dei relativi ricavi.

Come già ampiamente spiegato, se la parte contraente vittima dell’inadempimento dell’altra sostiene un costo in occasione della stipulazione del contratto successivamente risolto deve provare l’esistenza e consistenza del danno, dimostrando se ed in che misura si sia rivelato completamente inutile per effetto dell’inadempimento dell’altro contraente. Ove il costo sia stato sostenuto per la conclusione di un contratto a prestazioni corrispettive deve provare di non averne avuto alcun beneficio né ricavo, proprio per effetto dell’altrui inadempimento, mancando altrimenti la possibilità logica di configurare un pregiudizio risarcibile.

Al riguardo la stessa relazione del consulente di parte prof. Massari prodotta dalle società attrici a sostegno delle loro richieste risarcitorie, dopo aver indicato la proiezione dei costi gravanti su Mediaset Premium per effetto della rinnovazione dei contratti di distribuzione, sottolinea che “Ai fini della stima del danno va ovviamente rispettata la logica differenziale. In altri termini vanno stimati, oltre ai costi relativi ai rinnovi, anche i maggiori ricavi causati dai rinnovi stessi, essendo il danno pari alla differenza tra maggiori costi e maggiori ricavi”, salvo, poi, concludere, sulla base di una ricerca di mercato sull’importanza dei canali per bambini o documentari nella spinta a sottoscrivere l’abbonamento a Premium relativa all’anno 2018 di cui ha allegato solo il frontespizio (v. allegato IX) che “i ricavi differenziali riferibili al rinnovo degli abbonamenti risultano tendenzialmente trascurabili” (v. doc. 95 di parte attrice a pag. 19).

L’affermazione è priva di qualsiasi supporto probatorio non avendo la parte attrice prodotto in giudizio né sottoposto all’esame del suo consulente, alcuna documentazione attestante i ricavi ascrivibili alla distribuzione dei contenuti in questione a supporto dell’affermazione in ordine alla loro “tendenzialmente trascurabile” entità.

In ogni caso, la mancanza di ricavi significativi nella distribuzione dei contenuti in questione non potrebbe essere messa in nesso causale immediato e diretto con la supposta imposizione del rinnovo da parte di Vivendi, potendo essere riferibile, con maggiore probabilità, alla poco lungimirante gestione dell’attività di impresa nel periodo immediatamente antecedente alla conclusione dell’accordo di partnership, emersa dalla due diligence di Deloitte France.

Quanto al pregiudizio lamentato in ragione del mancato incremento del parco abbonati nella misura attesa è sufficiente evidenziare che la contestazione di Vivendi sull’irrealizzabità ex ante del business plan di Mediaset Premium, proprio con riferimento al previsto aumento degli abbonati e dell’ARPU in ragione degli enormi costi di promozione straordinaria già sostenuti nel primi mesi dell’anno 2016, fondata sulle risultanza della due diligence svolta da Deloitte France, rende prive di qualsiasi rilevanza probatoria le stime relative all’esistenza e consistenza del danno elaborate del consulente di parte attrice prof. Massari, sulla base delle irrealistiche attese di incremento della clientela di Mediaset Premium e sulle indicazioni del suo valore medio stand alone da parte dei consulenti finanziari JP Morgan e Credit Suisse, pacificamente tenuti da Mediaset all’oscuro degli indicatori negativi, scoperti da Vivendi dopo la due diligence (v. documento n. 95 di parte attrice a pag. 21 e 22).

Del resto le società attrici, nel corso dell’intero giudizio, si sono adoperate essenzialmente ad escludere la rilevanza contrattuale della scoperta, dopo la due diligence, dell’irrealizzabilità delle previsioni del business plan ai fini dell’esercizio del diritto di recesso da parte di Vivendi, ma si sono ben guardate dal negare la situazione di difficoltà economica e finanziaria in cui versava Mediaset Premium al momento della conclusione del contratto e, comunque, dal richiedere di dimostrare l’effettiva realizzabilità delle previsioni del piano economico finanziario, nonostante gli indicatori negativi taciuti a Vivendi nel corso della trattativa.

L’infondatezza delle pretese risarcitorie in questione non potrebbe essere più evidente.

Procedendo all’esame del danno consistente nella perdita durevole del valore di Mediaset Premium per effetto delle dichiarazioni pubbliche rese da Vivendi in merito all’inattendibilità del suo business plan, quantificato dalla società attrice in 450 milioni di euro, è anche questo un pregiudizio economico riferibile direttamente alla società target, risarcibile a titolo di responsabilità extracontrattuale derivante dal supposto illecito diffamatorio.

La società invoca in relazione a questa categoria di danno una responsabilità della società convenuta diversa da quella derivante dall’inadempimento dell’accordo di partnership, fondata essenzialmente sulla divulgazione denigratoria della notizia che l’inattendibilità del business plan di Mediaset Premium aveva determinato il suo rifiuto a concludere l’operazione di scambio azionario programmata.

Iniziando dall’esame dell’an della responsabilità invocata, in linea generale, la diffusione di notizie ed informazioni di interesse pubblico potenzialmente lesive della reputazione altrui si connota di illiceità solo ove i fatti divulgati siano inveritieri ed è, quindi, indispensabile che il danneggiato provi in giudizio, innanzitutto, la falsità delle circostanze dalla cui divulgazione la lesione della sua reputazione sociale sarebbe derivata.

La regolamentazione del mercato su cui operano le società quotate in borsa onera, poi, specificamente le emittenti di azioni quotate alla diffusione di qualsiasi informazione che possa incidere sull’andamento delle quotazioni, anche inerenti i risultati economici dell’attività di impresa o a operazioni in corso di definizione con altre società, onde prevenirne l’utilizzazione privilegiata da parte della cerchia ristretta di soggetti che ne è a conoscenza ed arginare il fenomeno dell’insider trading.

La disciplina della fattispecie descritta, riconducibile essenzialmente ad informazioni privilegiate su “processi prolungati”, quali sono le trattative, le operazioni negoziali in corso ed il contenzioso, è contenuta, in particolare, all’art. 114 TUF relativo al mercato italiano, vincolante per Mediaset, e all’art. 223-1 AMF, regolamento francese sugli intermediari, vincolante per Vivendi (v. doc. 155 di parte convenuta).

Ne deriva che la diffusione di notizie anche negative sull’evoluzione di un’operazione negoziale in corso può costituire, in talune situazioni, adempimento di un obbligo specifico per le società quotate in borsa, fonte di responsabilità aquiliana solo se le informazioni diramate al mercato non corrispondano a verità.

Sulla base della ricostruzione documentale la vicenda prende avvio dalla divulgazione delle contestazioni insorte fra le parti nell’attuazione dell’operazione di scambio azionario programmata nell’accordo dell’8 aprile 2016 ad iniziativa di Mediaset che, con il primo comunicato stampa del 26 luglio 2016, ha ritenuto necessario, informare il mercato che “Vivendi non intende rispettare il contratto vincolante sottoscritto con Mediaset”, avendo proposto uno schema alternativo dell’operazione che prevedeva l’acquisto solo del 20% del capitale di Mediaset Premium con la prospettiva dell’acquisto del 15% del capitale di Mediaset, in risposta all’intimazione rivoltale da Mediaset ad adempiere i propri obblighi contrattuali ed in particolare quello di notificare tempestivamente l’acquisto del controllo di Mediaset Premium alla Commissione antitrust della Ue (v. doc. 36 di parte convenuta).

Dopo la diffusione del comunicato stampa di Mediaset, che non faceva alcun cenno alle ragioni addotte da Vivendi per indurla a rinegoziare l’accordo, Vivendi ha, a sua volta, informato il mercato di aver rilevato “differenze significative nell’analisi dei risultati della sua controllata - Mediaset Premium -, per la quale le due società sono attualmente in fase di negoziazione” confermando, su richiesta dell’AMF, il contenuto della proposta di rinegoziazione già descritta da Mediaset nel proprio comunicato unitamente alla “propria volontà di costruire una importante alleanza strategica con Mediaset e Mediaset Premium” (v. doc. 37 di parte convenuta).

Nella stessa giornata Mediaset ha diramato un comunicato intitolato “precisazioni in merito al comunicato odierno di Vivendi” con cui, dopo aver negato l’esistenza di negoziazioni dopo il contratto già concluso l’8 aprile 2016, affermava che “L’analisi dei risultati di Premium è ovviamente avvenuta prima della firma, come accade prima di ogni assunzione di impegni.” e che “Quanto a lettere inviate da Vivendi a Mediaset, confermiamo di non aver mai ricevuto alcuna contestazione formale sulla validità o i contenuti del contratto” (v. doc. 36 di parte convenuta).

Con il comunicato del successivo 29 luglio 2016 Vivendi ha, quindi, puntualizzato che “il disaccordo con Mediaset concerne il business plan di Mediaset Premium, elemento cardine della decisione di Vivendi di sottoscrivere l’accordo dell’8 aprile 2016. Sulla scorta della valutazione di Vivendi tale business plan, il quale prevede già nel 2018 il raggiungimento del punto di pareggio da parte di Mediaset Premium, è basato su assunti non realistici, come il revisore di Vivendi, Deloitte, ha evidenziato nel proprio report di due diligence di giugno 2016: “il Business Plan appare irrealizzabile e andrebbe seriamente ridimensionato per risultare realistico.” (v. doc. 38 di parte convenuta).

Lo stesso giorno, Mediaset ha reagito con un altro comunicato, con cui ha accusato Vivendi della diffusione di notizie strumentali ad alterare il corso del titolo in borsa e ha precisato che “il business plan di Mediaset Premium con le annesse assunzioni di base- che rientra nel novero delle documentazioni aziendali coperte da obblighi di riservatezza- era in possesso di Vivendi fin da inizio marzo 2016, oltre un mese prima dell’accordo vincolante. Tanto che l’analisi dei suoi contenuti da parte della società francese ha concorso in modo significativo alla definizione dei termini e delle condizioni del contratto firmato il successivo 8 aprile.” (v. doc. 6 di parte attrice).

In sostanza, quindi, la valutazione della necessità di informare il mercato delle contestazioni sulla vicenda contrattuale, la cui genesi risaliva già al mese di maggio 2016, compiuta da Mediaset con la pubblicazione del comunicato del 26 luglio 2016, ha dato avvio alla catena delle comunicazioni che ha reso di pubblico dominio la valutazione di irrealizzabilità del business plan di Mediaset Premium espressa da Deloitte France dopo la due diligence la cui comunicazione al mercato era a quel punto anch’essa doverosa.

Ne è seguita, poi, un’imponente campagna di stampa reciprocamente denigratoria improntata alla trasposizione a livello mediatico dei termini essenziali del conflitto, nel frattempo sfociato in contenzioso giudiziario, tradotti nel “colorito” linguaggio figurativo che connota la comunicazione al grande pubblico di fenomeni complessi (con espressione del tipo “Se mi dici che mi sai vendendo una Ferrari e poi viene fuori che è una Punto, c’è un problema” riferita alle ragioni del rifiuto di Vivendi a concludere l’acquisto di Mediaset Premium o la riconduzione dell’inadempimento all’intento di scalata di Mediaset da parte del “pirata bretone” v. doc.33 di parte attrice), che nulla può aver aggiunto all’iniziale impatto della notizia sui mercati.

Nel contesto delineato la diffusione della notizia che l’inattendibilità del business plan di Mediaset Premium aveva determinato il rifiuto di Vivendi a concludere l’operazione di scambio azionario oggetto dell’accordo sottoscritto potrebbe configurare condotta illecita di diffamazione, potenzialmente lesiva della reputazione commerciale di Mediaset Premium, solo se il fatto che la due diligence di Deloitte France aveva rilevato l’irrealizzabilità del piano economico finanziario non corrispondesse al vero.

Come già sottolineato, al riguardo, parte attrice non ha mai contestato che i dati taciuti a Vivendi nel corso delle trattative emersi all’esito della due diligence, specificamente relativi al numero di richieste di recesso degli abbonati nel dicembre 2015, al numero di recessi del solo mese di gennaio 2016 e all’entità dei costi complessivi sostenuti per le promozioni ed offerte nei mesi immediatamente precedenti la conclusione dell’accordo, fossero dati reali né che fossero fondamentali ai fini della valutazione dell’attendibilità delle previsioni del business plan come affermato dopo la due diligence da Deloitte France, essendosi limitata a sostenere strenuamente in giudizio che non avessero rilevanza ai fini dell’esercizio delle limitate facoltà di recesso contrattualmente riconosciute alla società acquirente.

La mancanza di qualsiasi prova del fatto che le informazioni divulgate da Vivendi sull’inattendibilità del business plan di Mediaset Premium che l’avevano indotta a ritirarsi dall’affare fossero inveritiere è dirimente ai fini dell’accertamento dell’insussistenza dell’illiceità della condotta e, quindi, della responsabilità invocata a fondamento della domanda risarcitoria.

In ogni caso, priva di qualsiasi supporto probatorio è anche l’esistenza del pregiudizio lamentato dalla società attrice, in ben 450 milioni di euro, facendo riferimento alla stima dell’impatto negativo sul “valore di mercato di Mediaset Premium” della notizia, contenuta nella relazione del suo consulente di parte prof. Massari.

La stima della riduzione del valore di mercato di Mediaset Premium proposta dal consulente di parte attrice si fonda, in estrema sintesi, sulla differenza tra il valore di mercato, nelle sue due componenti del “valore ‘stand alone’ del business o valore as is” e del “il valore costituito dalle sinergie realizzabili dai potenziali acquirenti”, prima e dopo le dichiarazioni negative di Vivendi sull’attendibilità del business plan della società, stimata attraverso la combinazione di due metodi: il metodo comparativo rispetto a transazioni analoghe, attraverso l’individuazione del “differenziale di premio” (la differenza cioè tra il prezzo ed il valore as is) da applicare al valore as is ed il metodo che misura il differenziale di valore in termini di “equity value”, cioè di valore del patrimonio netto, assegnato dagli analisti finanziari di Mediaset prima e dopo il fallimento dell’accordo (v. doc. 95 di parte attrice a pag. 23, 24, 25).

Entrambi i metodi di stima sono stati applicati a partire dalla media del “valore as is” (pari a 583 milioni di euro) e dalla media del valore in termini “equity value” (pari a 860, 6 milioni di euro), attribuito a Mediaset Premium dagli analisti finanziari di Mediaset, prima della conclusione dell’accordo come risulta evidente dalle tabelle esplicative (v. doc. 95 a pag. 25 e 26).

Ma la prova del fatto che le dichiarazioni pubbliche di Vivendi sull’inattendibilità del business plan di Mediaset Premium abbiano avuto una reale incidenza sul “valore di mercato di Mediaset Premium”, presuppone logicamente la dimostrazione di quale esso fosse effettivamente al momento della propalazione della notizia.

L’accertamento dell’esistenza del danno come prospettato dal perito della società attrice presuppone, quindi, la compiuta dimostrazione in giudizio del fatto che

a) al momento della conclusione dell’accordo dell’8 aprile 2016 la situazione patrimoniale economica e finanziaria di Mediaset Premium fosse effettivamente quella esaminata dagli analisti finanziari JP Morgan e Credit Suisse che ne avevano indicato un valore as is, pari, in media, a 583 milioni, e un valore “equity value”, pari, in media, a 860,6 milioni di euro, come emerge dai dati posti dal perito di parte attrice prof. Massari a fondamento della sua stima (v. doc. 95 pag. 25);

b) la flessione del valore di mercato di Mediaset Premium, sotto il duplice profilo della perdita di valore dell’attività nella prospettiva, c.d. stand alone, cioè della continuazione autonoma dell’attività di impresa, e della perdita del valore connesso alle potenzialità di espansione derivanti dall’instaurazione di proficue sinergie con altre imprese del settore, fosse dovuta effettivamente alla divulgazione della notizia dell’inattendibilità del business plan piuttosto che ai risultati deludenti dell’attività di impresa, già pronosticati da Deloitte France, all’esito della due diligence, e già ampiamente prevedibili, una volta considerato l’impatto sulle prospettive concrete di operatività e redditività dell’impresa degli indicatori negativi emersi successivamente alla conclusione dell’accordo del 8 aprile 2016.

Sotto il primo aspetto due circostanze inducono seriamente a dubitare che la situazione patrimoniale economica e finanziaria di Mediaset Premium e, quindi, il suo valore, fossero effettivamente quelli descritti dalle stime degli analisti finanziari, acriticamente poste dal consulente di parte a fondamento della sua valutazione:

- il fatto che gli analisti finanziari non avessero, pacificamente, conoscenza del quadro completo degli indicatori di funzionamento dell’impresa ed in particolare dei dati allarmanti scoperti da Deloitte France nel corso della due diligence, quando hanno formulato le loro valutazioni; e dalla relazione non emerge in alcun modo che il consulente di parte attrice prof. Massari, richiamando le loro valutazioni della situazione di Mediaset Premium al momento della conclusione dell’accordo e ponendole a fondamento della sua stima differenziale, ne abbia analizzato e considerato l’indubbio impatto negativo;

- il fatto che lo stesso Marco Giordano, amministratore delegato di Mediaset Premium, non più di un anno dopo la sottoscrizione dell’accordo di partnership, in occasione dell’audio conferenza con gli analisti finanziari del 19 aprile 2017, abbia ammesso che la governance di Mediaset Premium aveva già, all’inizio di gennaio 2016, programmato la dismissione dell’attività di pay tv nel settore della trasmissione delle partite di calcio in quanto non più sostenibile nella prospettiva stand alone; decisione a cui avrebbe dovuto, coerentemente, seguire la svalutazione dei diritti calcistici nelle situazioni patrimoniali redatte al 31 marzo 2016 e al 30 giugno 2016, approvate nelle assemblee del 31 maggio 2016 e del 21 settembre 2016, indette per l’adozione dei provvedimenti di ricapitalizzazione, ai sensi dell’art. 2447 c.c., che avrebbero probabilmente messo in luce, già all’epoca, la perdita di oltre 300 milioni di euro emersa solo alla chiusura del bilancio 2016 (v. doc. 133 e 134 di parte convenuta nonché relazione del perito di parte convenuta Prof. Colombo di cui al doc. 77 pag. 82 e ss e al doc. 243 pag. 37 e ss). È lo stesso Giordano, al riguardo, ad ammettere candidamente che “L’importo di Euro 340 milioni, diciamo, è l’effetto negativo sui numeri del 2016. Se si considera che l’accordo vincolante firmato doveva essere eseguito entro settembre 2016 e se Vivendi avesse eseguito quanto aveva firmato, l’importo di Euro 340 milioni non sarebbe stato nella nostra contabilità.” (v. doc. 131 di parte convenuta).

Ma se lo stesso amministratore delegato di Mediaset Premium ha ammesso che già all’inizio dell’anno 2016, prima ancora dell’inizio della trattativa con Vivendi, l’attività di pay tv nel settore del calcio era insostenibile per un operatore di dimensioni locali e che la svalutazione dei diritti calcistici non era stata operata nelle situazioni patrimoniali coeve alla conclusione dell’accordo, in vista del fatto che la perdita sarebbe andata a gravare sulla contabilità di Vivendi, è lecito dubitare seriamente del fatto che Mediaset Premium fosse strutturalmente in condizioni di operare sul mercato senza continuare a cumulare perdite, al momento della conclusione dell’accordo.

Sotto il secondo aspetto è, invece, sufficiente evidenziare che “il valore di mercato” di Mediaset Premium ed il correlato potere negoziale nella vendita della partecipazione da parte di RTI, sia nella sua componente c.d. stand alone sia nella sua componente sinergica è funzione dell’effettiva capacità operativa sul mercato dell’impresa prima che della sua immagine commerciale.

Il valore di base dell’attività di impresa così come il valore derivante dalle potenziali sinergie poggiano, infatti, sulla solidità del piano industriale e sull’effettiva capacità dell’impresa di esprimere maggiori potenzialità con l’inserimento nella rete di un’organizzazione più vasta e non certo su un’immagine commerciale disallineata e disancorata dalle effettive condizioni di operatività sul mercato dell’impresa che una semplice due diligence preventiva, costituente la prassi decisamente più diffusa sul mercato, sarebbe in grado di smascherare.

Nella situazione emersa all’esito della due diligence e, a posteriori, dalle dichiarazioni rese dal Giordano sulle prospettive di dismissione dell’attività su cui Mediaset Premium aveva investito l’ingente costo di acquisto dei diritti calcistici, l’andamento negativo della gestione dopo la divulgazione della notizia della “rottura” dell’accordo da parte Vivendi, lungi dal dimostrare il nesso causale tra la condotta dell’avversario e la perdita di valore, avvalora piuttosto l’ipotesi che, già al momento della conclusione dell’accordo, il valore di Mediaset Premium fosse compromesso dalla sua incapacità, per ragioni intrinseche connesse essenzialmente al peso strutturale dei costi fissi, di riemergere dalla gestione in perdita e di riprendere ad operare con profitto secondo le previsioni del business plan che aveva consegnato a Vivendi.

Quanto, poi, alla riduzione del potere negoziale di vendita sul mercato della partecipazione sociale di RTI, cui pare fare cenno la relazione del consulente di parte attrice, è appena il caso di rilevare che la necessità della prova effettiva del danno esige sia dimostrata in giudizio dalla società attrice l’esistenza in concreto di altri potenziali acquirenti, ben individuati in soggetti disposti a competere fra loro per l’acquisto, svaniti dopo la divulgazione delle notizie sulle effettive prospettive di operatività della società target mentre è privo di qualsiasi rilevanza probatoria il semplice studio accademico delle potenzialità configurabili in astratto.

Del resto il danno conseguente alla riduzione del valore di negoziazione di una partecipazione azionaria, vista dall’angolo visuale dell’investimento compiuto dal socio, individuato dal consulente di parte attrice nel “premio” connesso alle opportunità di un disinvestimento proficuo, si realizza soltanto al momento della vendita ad un prezzo inferiore a quello di acquisto, che RTI non ha mai neanche allegato in giudizio essere avvenuta.

In sintesi sulla domanda risarcitoria in esame si può concludere che non è illecita la divulgazione di notizie vere sullo stato di difficoltà patrimoniale, economica o finanziaria della società e il valore del suo patrimonio, cui è correlato quello della partecipazione del socio, non può subire alcun pregiudizio se, per effetto della reale situazione dell’impresa, fosse già seriamente compromesso al momento della diffusione delle informazioni.

La consulenza tecnica di parte della società attrice ha ricostruito il preteso danno attraverso uno studio teorico fondato sul raffronto di dati relativi al valore iniziale di Mediaset Premium ampiamente contestati nella loro rispondenza alla realtà mentre, all’esito del giudizio, sono emersi elementi più che concreti per affermare che il business plan consegnato a Vivendi nel corso delle trattative non fosse attendibile e che la situazione patrimoniale di Mediaset Premium fosse quella di un’impresa avviata al declino.

Il fatto che siano circostanze rispetto alle quali Vivendi non era titolare di un diritto contrattuale di recesso dall’accordo, non esclude che esse siano, invece, rilevanti ai fini dell’accertamento dell’esistenza del danno lamentato dalla società attrice per la riduzione del valore di mercato Mediaset Premium, trattandosi di elementi che, in concreto, rivelano la compromissione già al momento della conclusione del contratto del valore dell’azienda sia nella prospettiva c.d. stand alone di prosecuzione autonoma dell’attività di impresa sia nella prospettiva della continuazione in sinergia con altre imprese, la cui incidenza positiva dipende, prima che dall’immagine commerciale dell’impresa, dall’effettiva possibilità di sviluppo della sua operatività sul mercato.

E la ricostruzione del valore di mercato di Mediaset Premium su un’immagine commerciale disallineata dalle effettive potenzialità dell’impresa che non avrebbe retto all’impatto della due diligence preventiva che normalmente accompagna sul mercato la conclusione degli accordi traslativi di partecipazioni sociali, non vale a dimostrare l’esistenza effettiva del danno.

La domanda risarcitoria è, pertanto, priva di fondamento.

E) il danno di Mediaset per la lesione all’immagine e alla reputazione commerciale provocata dal pubblico ed ingiustificato screditamento da parte di Vivendi a partire da luglio 2016, stimabile in via equitativa, trattandosi di società quotata in borsa, sulla base del c.d. effetto annuncio sul prezzo di borsa del titolo, in 120 milioni di euro.

Nella prospettazione della società attrice mutuata pressoché integralmente dalla relazione del consulente di parte, attesa l’estrema genericità delle deduzioni contenute nella memoria di trattazione, la lesione del diritto all’immagine patita da Mediaset per effetto della campagna denigratoria di stampa seguita alla “rottura” dell’accordo da parte di Vivendi avrebbe arrecato pregiudizio alla “capacità di realizzare a favorevoli condizioni le operazioni straordinarie finalizzate alla gestione strategica della complessa fase di ristrutturazione che sta interessando le aree di affari nella quale essa opera” e sarebbe, quantificabile in via equitativa, nella misura di 120 milioni di euro, sulla base del ribasso del valore del titolo riconducibile all’impatto dell’evento sul suo normale andamento, isolato con la tecnica dell’event study (v. doc. 95 a pag. 28 e 29).

Con riguardo al danno all’immagine della società e, in generale, degli enti la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che il pregiudizio non possa essere rinvenuto in re ipsa nella diffusione di notizie denigratorie non vere lesive del diritto all’immagine dell’ente ma richieda l’allegazione puntuale e la prova che abbia effettivamente pregiudicato la reputazione commerciale dell’impresa presso i consociati con cui interagisce nel settore di mercato ove opera, non potendo nel sistema della responsabilità civile ascriversi al risarcimento del danno una mera funzione punitiva della violazione dell’interesse tutelato.

Afferma, infatti, la suprema corte che “In materia di responsabilità civile, anche nei confronti delle persone giuridiche ed in genere degli enti collettivi è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale, da identificare con qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione - compatibile con l’assenza di fisicità del titolare - di diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all’immagine, il cui pregiudizio, non costituendo un mero danno-evento, e cioè “in re ipsa”, deve essere oggetto di allegazione e di prova, anche tramite presunzioni semplici” (Cass. 13.10.2016 n. 20643; Cass. 1.10.2013 n. 22396; Cass. 25.7.2013 n. 18082; Cass. 18.9.2009 n. 20120).

La società che lamenti un pregiudizio dalla lesione del suo diritto all’immagine per la diffusione di notizie denigratorie deve, pertanto, allegare e dimostrare elementi di fatto specifici che consentano di presumere il pregiudizio alla sua reputazione commerciale presso i fruitori dei suoi prodotti e servizi nel mercato in cui opera, fermo restando, come già rilevato, che l’illecito diffamatorio richiede, in ogni caso, la prova della diffusione di notizie non corrispondenti al vero.

Nel caso in esame, a prescindere dal fatto che, come già detto, non vi è prova della diffusione da parte di Vivendi di notizie non veritiere sulla vicenda, Mediaset non ha neanche dedotto di aver subito per effetto dell’offuscamento della sua immagine un pregiudizio alla sua reputazione presso i committenti di pubblicità o gli utenti dei servizi che offre nell’esercizio della sua attività di impresa nel settore della diffusione di contenuti su canali televisivi in chiaro. Si è limitata, infatti, genericamente a sostenere, tramite il suo consulente di parte, che la violazione del suo diritto all’immagine avrebbe compromesso la sua “capacità di realizzare a favorevoli condizioni le operazioni straordinarie finalizzate alla gestione strategica della complessa fase di ristrutturazione” senza neanche indicare quali specifiche operazioni straordinarie programmate in quel periodo le sarebbero state in concreto precluse dal discredito.

L’andamento al ribasso del prezzo di borsa del titolo per il c.d. effetto annuncio costituisce, poi, un riflesso sul mercato finanziario della notizia della rottura dell’accordo che non necessariamente sottintende la lesione della reputazione dell’impresa sul mercato economico in cui opera e che non crea di per sé danno al patrimonio della società quotata emittente, strutturalmente esposta alla fluttuazione del valore di borsa delle sue azioni, limitandosi a costituire indice del momentaneo volgere del rischio dell’investimento a sfavore della platea dei suoi azionisti.

L’ipotesi accademica del pregiudizio derivante dalla penalizzazione della capacità della società quotata di realizzare a condizioni favorevoli le operazioni straordinarie di ristrutturazione, per costituire danno risarcibile, avrebbe dovuto essere supportata dalla prova in giudizio della perdita effettiva, a seguito del ribasso del titolo, della possibilità di concludere specifiche operazioni già programmate alle condizioni attese.

Anche questa domanda risarcitoria è, pertanto, priva di fondamento.

Per concludere, all’esito dell’esame delle domande risarcitorie tempestivamente proposte da Mediaset e RTI nel presente giudizio, la società convenuta deve essere condannata al risarcimento del danno derivato dal suo inadempimento agli obblighi prodromici alla verificazione della condizione sospensiva a cui era sottoposta l’efficacia dell’accordo stipulato l’8 aprile 2016, mediante pagamento a favore di Mediaset della somma di € 1.202.419,28 e a favore di RTI della somma di € 514.167,07, oltre interessi di mora nella misura legale sulla somma anno per anno rivalutata dalla data della domanda giudiziale, come precisata nella prima memoria di trattazione depositata in data 8 giugno 2018, sino al saldo.

Non resta ora che esaminare le domande riconvenzionali proposte da Vivendi per ottenere il risarcimento del danno subito per i costi sostenuti durante la negoziazione e la sottoscrizione del contratto pari ad € 3.055.615 e del danno all’immagine subito in conseguenza delle condotte diffamatorie delle società, da liquidarsi in via equitativa nella somma di € 59.100.000, corrispondente al costo della campagna mediatica “riparatoria” mediante pubblicazione dello stesso numero di articoli, sulle nove testate giornalistiche coinvolte e sugli altri mezzi di comunicazione di massa come la televisione ed i canali internet.

Con riguardo alla prima voce di danno è sufficiente evidenziare che l’inadempimento agli obblighi prodromici di compiere l’attività necessaria a rendere possibile l’avveramento della condizione sospensiva è imputabile alla stessa Vivendi per tutte le ragioni ampiamente esposte e che, quindi, l’inutilità dei costi sostenuti per la negoziazione e sottoscrizione dell’accordo è un pregiudizio economico non configurante un danno giuridicamente risarcibile.

Quanto, invece, al danno non patrimoniale all’immagine la società convenuta, nel corso della trattazione della causa, ha lamentato che l’imponente compagna di stampa diffamatoria, avviata ed alimentata dalle società attrici attraverso la diffusione di notizie inveritiere, avrebbe determinato una proiezione negativa sulla reputazione della società immediatamente percepibile dalla collettività, soprattutto in conseguenza delle allusioni ad un inesistente provvedimento di declaratoria di ammissibilità del ricorso per sequestro giudiziario delle sue azioni depositato dalle attrici e, poi, rinunciato, nonché attraverso l’uso di espressioni offensive dirette ai propri vertici, tacciati di arroganza e spregiudicatezza per aver avuto nella vicenda “la compostezza e la delicatezza di un Attila”.

In particolare la società convenuta ha sostenuto la diminuzione della considerazione di cui godeva presso i soggetti con cui interagisce nell’esercizio della propria attività di impresa nel settore dei media, compresi gli investitori istituzionali e gli investitori delle altre società in cui è azionista rilevante.

Come già sottolineato esaminando la domanda speculare delle società attrici, la giurisprudenza di legittimità in materia di danno all’immagine delle società richiede, per l’affermazione della responsabilità, la prova dell’effettiva lesione della reputazione commerciale dell’ente nel settore di mercato dove svolge la sua attività di impresa che, ove presuntiva, deve essere fondata su elementi di fatto specifici e concreti non potendo tautologicamente essere desunta dalla portata offensiva delle notizie propalate.

La società convenuta si è limitata, al riguardo, a richiamare il contenuto diffamatorio degli articoli pubblicati sulla vicenda senza dedurre alcuno specifico elemento di fatto che consenta di inferire che ne sia derivata un’effettiva lesione della reputazione presso gli investitori o gli utenti dei servizi che offre nel settore dei media sul mercato internazionale. Non è per nulla scontato, infatti, che la portata offensiva delle pubblicazioni in questione abbia scalfito la considerazione di cui gode nel consesso internazionale di settore, una società che vanta di essere al vertice di uno dei più grandi gruppi industriali al mondo.

La domanda riconvenzionale risarcitoria deve, pertanto, essere respinta.

La decisione sulle domande delle parti nella seconda controversia c.d. Giudizio Fininvest.

Per le ragioni già esposte nella parte della motivazione relativa all’individuazione dell’oggetto della controversia deve essere esaminata nel merito solo la domanda risarcitoria di Fininvest nei confronti di Vivendi, tempestivamente dedotta nell’atto di citazione e riportata al punto II) della precisazione delle conclusioni da sottoporre al Collegio di cui al verbale dell’udienza del 22.9.2020.

La domanda ha ad oggetto l’accertamento del diritto al risarcimento che Fininvest, società controllante di Mediaset, avrebbe subito a causa dell’oltraggioso rifiuto di Vivendi di portare a termine l’operazione di alleanza strategica con la società controllata, progettata con l’accordo dell’8 aprile 2016 e l’annesso patto parasociale, sfociato in una campagna denigratoria che aveva investito l’intero gruppo imprenditoriale.

Con i comportamenti in questione Vivendi avrebbe violato precisi e vincolanti obblighi contrattuali, oltre che il più generale dovere del neminem ledere, incorrendo al contempo in responsabilità contrattuale ed extracontrattuale per l’enorme pregiudizio economico subito da Fininvest nella misura complessiva di € 1.480.233.423,00, in termini di

a) perdita di valore della partecipazione strategica detenuta in Mediaset S.p.a., da liquidare in una somma non inferiore a euro 1.180.233.423,00;

b) danno ai processi decisionali e alla pianificazione strategica da liquidare in una somma non inferiore ad euro 150.000.000,00;

c) danno alla reputazione e immagine da liquidare in una somma non inferiore ad euro 150.000.000,00. Iniziando dall’esame dell’an della responsabilità contrattuale, invocata da Fininvest sostenendo che Vivendi si sarebbe rifiutata di portare a compimento l’operazione di alleanza strategica contravvenendo a precisi obblighi contrattuali che aveva assunto nei suoi confronti, deve escludersi che possano aver costituito fonte di un qualsiasi impegno negoziale di Vivendi nei confronti di Fininvest,

- l’accordo sospensivamente condizionato, sottoscritto da Vivendi solo con Mediaset e RTI l’8 aprile 2016 a cui Fininvest è rimasta estranea e che non ha mai prodotto alcuno degli effetti obbligatori di scambio azionario programmati per il mancato avveramento della condizione,

- o il testo concordato del patto parasociale allegato N dell’accordo dell’8 aprile 2016, di cui Mediaset e RTI avevano garantito la sottoscrizione da parte di Fininvest al momento del closing, che non è mai stato firmato in ragione dell’inefficacia dell’accordo preliminare di scambio a cui accedeva.

La clausola n. 8 dell’accordo dell’8 aprile 2016, stipulato da Vivendi solo con Mediaset e RTI, prevedeva semplicemente che “Al closing, Vivendi e Finanziaria di Investimento Fininvest s.p.a. sottoscriveranno il Patto parasociale accluso al presente, nella forma concordata, come Allegato N” e la pattuizione vincolava Vivendi nei confronti delle sue controparti contrattuali Mediaset e RTI a stipulare il patto parasociale con Fininvest nel testo concordato, contestualmente alla conclusione dell’operazione e all’esecuzione dello scambio azionario.

Tuttavia, la previsione in esame non ha mai acquisito alcuna efficacia, atteso che l’accordo in cui era contenuta, è rimasto inefficace per il mancato avveramento della condizione sospensiva nel termine pattuito del 30 settembre 2016, non surrogabile dalla fictio iuris di avveramento prevista dall’art. 1359 c.c. in ragione della natura dell’evento condizionante (si richiama integralmente, al riguardo, la motivazione da pag. 39 a pag. 41).

Nessun obbligo può, dunque, essere sorto per Vivendi nei confronti di Fininvest dall’accordo in questione neanche con riguardo all’impegno di sottoscrizione del testo concordato del patto parasociale che presupponeva l’avveramento della condizione e la conseguente conclusione dell’operazione di scambio azionario.

Il patto parasociale, predisposto con la dichiarata funzione di mettere “in sicurezza” la progettata alleanza strategica a cui lo scambio azionario reciproco era finalizzato dal rischio del verificarsi dei presupposti dell’OPA obbligatoria è rimasto, poi, semplicemente un testo contrattuale in bozza, mai sottoscritto dai soggetti che avrebbero dovuto contrarre il vincolo e da cui nessuna obbligazione contrattuale può essere derivata.

Nell’accordo dell’8 aprile 2016 a cui Fininvest era rimasta estranea, non vi è, infine, traccia della previsione di diritti a suo favore come terzo né emerge dal testo concordato della bozza di patto parasociale alcuna clausola integrativa del regolamento contrattuale con specifica funzione “protettiva” del suo interesse all’attuazione dell’alleanza strategica e alla conservazione della sua posizione di controllo in Mediaset.

Lo scopo enunciato del futuro patto parasociale che rendeva indispensabile l’intervento negoziale di Fininvest nell’operazione era, infatti, solo quello di assicurare il funzionamento dell’alleanza strategica programmata scongiurando il pericolo dell’OPA, come previsto espressamente dalla lettera C) delle premesse secondo cui “mediante il presente Accordo, le Parti intendono definire i loro diritti ed obblighi con riguardo a qualsiasi futuro acquisto di azioni di Mediaset e assicurare che tali acquisti siano fatti senza far scattare alcun obbligo di lanciare un’offerta pubblica di acquisto obbligatoria su tutte le azioni in circolazione di Mediaset e nel rispetto di tutte le leggi e i regolamenti applicabili.” (v. allegato N lettera C delle premesse a pag. 4).

Una volta eseguite le previsioni dell’accordo dell’8 aprile 2016, infatti, Fininvest e Vivendi avrebbero potuto essere considerate soggetti che agiscono “di concerto” ai sensi dell’art. 101 bis comma 4 del TUF e di conseguenza essere obbligate a promuovere un’offerta pubblica di acquisto obbligatoria su Mediaset che avrebbe stravolto i contorni dell’alleanza programmata.

La previsione del futuro intervento negoziale di Fininvest attraverso la sottoscrizione del patto parasociale contestualmente alla conclusione dello scambio azionario tra Mediaset e Vivendi, indispensabile all’attuazione della partnership nei termini concordati, sottintende il suo scontato interesse economico al successo dell’iniziativa imprenditoriale della società controllata ma non è idonea a creare alcun effetto “protettivo” della sua sfera giuridica.

Anche l’evanescente figura del contratto con effetti protettivi dell’interesse del terzo, coniata nell’ambito della responsabilità medica con riferimento alla lesione dei diritti fondamentali della persona e invocata da Fininvest in una fattispecie in cui è ben difficile si pongano analoghe esigenze di tutela, richiede, infatti, che la protezione, che fa assurgere il mero interesse di fatto del terzo alla corretta esecuzione della prestazione contrattuale ad aspettativa giuridicamente tutelata, risulti in modo specifico dal contenuto dell’accordo.

E, avuto riguardo al tenore dell’unica pattuizione contrattuale che la coinvolge, non è rinvenibile alcuna previsione di protezione dell’interesse di Fininvest all’adempimento del contratto concluso con Vivendi dalla due società controllate.

Il comportamento di Vivendi che ha deliberatamente “bloccato” il procedimento per il rilascio delle autorizzazioni oggetto della condizione sospensiva apposta dalle parti all’accordo del 8 aprile 2016, rendendo impossibile la conclusione dell’operazione programmata non può, dunque, configurare inadempimento contrattuale nei confronti di Finivenst verso cui nessun obbligo negoziale risulta aver mai assunto, neanche nella forma estesa alla protezione dei suoi interessi di terzo estraneo all’accordo.

Non resta, dunque, che esaminare la questione della configurabilità nel comportamento di Vivendi della responsabilità aquiliana, prospettata da Fininvest sostenendo che l’ingiustificata decisione di rompere il vincolo negoziale contratto con Mediaset, dolosamente preordinata a provocare il crollo del prezzo di borsa del titolo, e la campagna denigratoria che l’aveva accompagnata, avrebbero travalicato i confini del mero inadempimento contrattuale per assumere i connotati di un vero e proprio illecito civile, lesivo del valore della sua partecipazione sociale strategica in Mediaset, del suo diritto alla pianificazione delle iniziative economiche del gruppo oltre che della sua reputazione.

Nell’addebito così descritto si intrecciano condotte illecite di natura diversa che combinano gli elementi propri dell’illecito diffamatorio che, come già visto, presuppone la non veridicità delle notizie diffuse da Vivendi sulle ragioni del suo ripensamento connesse all’inattendibilità della previsioni del businness plan di Mediaset Premium comunicate al mercato, e il carattere plurioffensivo della decisione di rompere l’accordo.

Mentre sull’insussistenza degli elementi dell’illecito diffamatorio nella vicenda si è già ampiamente argomentato (v. da pag. 64 a pag. 67 della motivazione), quest’ultima deduzione parrebbe richiamare a fondamento dell’antigiuridicità della condotta attribuita a Vivendi la fattispecie del c.d. concorso improprio tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale ravvisabile allorché il fatto costituente inadempimento del contratto sia al contempo lesivo della sfera giuridica di un terzo.

Come noto l’inadempimento del contratto è un fatto connotato dalla specifica antigiuridicità derivante dalla violazione della regola pattizia vigente solo nei rapporti con l’altro contraente in forza del regolamento contrattuale mentre nei confronti dei terzi, sulla base del principio sancito dall’art. 1372 c.c., secondo cui il contratto ha forza di legge solo fra le parti è in linea di principio un fatto neutro.

Il fatto dell’inadempimento è illecito verso l’altro contraente non verso la generalità dei consociati e, dunque, verso i terzi rimasti estranei all’accordo.

Nelle situazioni particolari, però, in cui il fatto si connoti al contempo come inadempimento di un contratto verso l’altro contraente e condotta lesiva di un diritto soggettivo del terzo, o quantomeno di una sua aspettativa giuridicamente tutelata alla corretta esecuzione della prestazione contrattuale, sussumibile nel principio generale del neminem ledere, potrebbe configurarsi anche un danno risarcibile da responsabilità aquiliana.

Come accade nelle ipotesi ricorrenti in cui la violazione da parte del danneggiante di obblighi contrattuali di custodia di cose, di sorveglianza, educazione e cura di persone incapaci o di adozione di cautele nell’esercizio di attività pericolose, assunti nei confronti di un soggetto specifico per effetto del vincolo negoziale, si risolva, al contempo, in inadempimento del contratto verso l’altro contraente e in lesione del diritto soggettivo di un terzo estraneo sul paradigma degli articoli 2051, 2048, 2050 e 2043 c.c.

La responsabilità aquiliana concorrente connessa ad un fatto di inadempimento contrattuale presuppone, dunque, che il danno sia derivato dalla lesione, non di un mero interesse economico di fatto del terzo all’esecuzione del programma negoziale vincolante solo fra i contraenti, ma di un suo vero e proprio diritto soggettivo o quantomeno di una sua posizione giuridicamente tutelata, che trovi la sua fonte all’esterno del regolamento contrattuale, perché ove l’effetto “protettivo” dell’interesse di un terzo fosse già in esso programmato la responsabilità potrebbe essere solo contrattuale, secondo il meccanismo strutturale del contratto a favore di terzo.

Ne deriva che la responsabilità aquiliana concorrente verso il terzo non può fondarsi sulla constatazione dell’imputazione dell’inadempimento ad uno dei contraenti del contratto alla cui esecuzione anche l’estraneo aveva interesse economico ma richiede l’accertamento della contestuale lesione di una sua posizione giuridica soggettiva autonoma in modo tale che dalla condotta derivi al terzo un danno ingiusto e non una semplice ripercussione negativa - giuridicamente irrilevante - nella sua sfera economica.

La questione si risolve, a questo punto, nel verificare l’esistenza di un diritto soggettivo o di un’aspettativa giuridicamente tutelata della socia controllante all’adempimento del contratto concluso dalla società controllata con un terzo che possano essere lesi dal comportamento inadempiente di quest’ultimo, dando luogo ad un danno ingiusto risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.

Per escludere l’esistenza di una qualsiasi posizione giuridica soggettiva del socio che tuteli il suo interesse economico all’adempimento dei contratti conclusi dalla società con i terzi nell’esercizio dell’attività di impresa è sufficiente evidenziare che, in forza del contratto sociale e del rapporto che ne deriva, il socio è tenuto a sopportare, nella misura corrispondente all’entità della partecipazione sociale di cui è titolare, il rischio dell’attività economica comune entro cui è ricompreso anche lo specifico rischio dell’inadempimento dei soggetti con cui la società partecipata ha stretto vincoli negoziali.

Il danno derivato dall’inadempimento del contratto fra la società ed un terzo, giuridicamente riferibile solo alla società lambisce il socio di riflesso, colpendolo nel suo interesse meramente economico al successo delle iniziative intraprese nell’esercizio dell’attività comune di impresa, la cui lesione non può configurare il danno ingiusto, elemento costitutivo dell’illecito aquiliano secondo la previsione dell’art. 2043 c.c.

Diversamente si finirebbe per affiancare ad ogni ipotesi di inadempimento dei contratti stipulati dalla società con i terzi, una concorrente responsabilità aquiliana “ombra” del terzo contraente verso ciascuno dei soci.

La specifica incidenza, poi, sull’andamento al ribasso del titolo del c.d. effetto annuncio della rottura dell’accordo non è riferibile all’inadempimento in sé del contratto con la società emittente da parte del terzo ma all’impatto della sua comunicazione al mercato, obbligatoria per le società quotate in borsa, che può essere fonte di responsabilità solo ove abbia assunto contenuti non corrispondente a verità.

In sintesi, neanche gli azionisti di una società quotata hanno diritto a che i terzi che contraggono con la società siano adempienti ai loro impegni negoziali e non può, quindi, configurarsi un illecito aquiliano del terzo contraente in dipendenza della mera violazione dolosa o colposa dell’accordo stretto con la società emittente né il c.d. effetto annuncio può essere fonte di danno risarcibile in difetto dei presupposti dell’illecito diffamatorio (v. supra).

Ne deriva l’inconfigurabilità nella fattispecie in esame della responsabilità aquiliana prospettata dalla Fininvest in relazione al pregiudizio economico subito per la decisione di Vivendi di non concludere l’operazione di alleanza strategica programmata con Mediaset.

La circostanza è dirimente per affermare l’infondatezza dell’imponente domanda risarcitoria formulata da Fininvest nei confronti di Vivendi evidente, comunque, anche sotto il profilo dell’inesistenza del danno lamentato sotto i diversi profili della perdita di valore della sua partecipazione in Mediaset, della compromissione dei processi decisionali e della lesione della reputazione.

A) La perdita di valore della partecipazione strategica detenuta da Fininvest in Mediaset S.p.a., da liquidare in una somma non inferiore a euro 1.180.233.423,00.

Al riguardo la Fininvest ha sostenuto di aver subito, a seguito del crollo del valore di borsa del titolo Mediaset provocato dall’annuncio della rottura dell’accordo da parte di Vivendi, una perdita di valore economico della partecipazione strategica e di controllo detenuta in Mediaset che, nell’atto di citazione, aveva stimato in € 270.824.706,90, semplicemente applicando all’intero pacchetto azionario la perdita di quotazione di borsa del titolo registrata nelle contrattazioni tra il 25 luglio 2016 e il 2 agosto 2016. Nel corso dell’istruttoria la società attrice ha, poi, mutato la prospettazione dei criteri di stima del danno, richiamando lo studio del consulente di parte Prof. Borré che aveva ritenuto più confacente, nella determinazione del pregiudizio economico subito dalla partecipazione strategica, il riferimento, piuttosto che al prezzo di borsa, ai c.d. “valori di consensus” che esprimono le previsioni di andamento del prezzo degli analisti finanziari, fondate sulla valutazione professionale dei fondamentali economici attuali e prospettivi dell’azienda come risultanti dagli elementi informativi pubblici, e che, quindi, consentirebbero di meglio apprezzare la perdita di valore della partecipazione derivante dall’impatto della notizia della rottura dell’accordo relativo ad un’operazione strategica.

Il consulente della società attrice aveva, poi, individuato il differenziale degli indicatori dei valori di consensus tra il 24 giugno 2016, giorno di consensus massimo prima dell’annuncio della rottura dell’accordo ed il 28.3.3018, giorno di consensus massimo dopo la conclusione da parte di Mediaset di altra operazione strategica con Sky, che applicato all’intero capitale di Mediaset e moltiplicato per la percentuale della partecipazione di Fininvest, consentirebbe di determinare la perdita di valore economico in € 517,4 milioni (v. doc. 53 di parte Fininvest a pag. 23).

Alla voce di danno emergente in questione andrebbe aggiunto il pregiudizio derivante dalla flessione, nello stesso periodo, del valore del premio di controllo, espressione dei benefici privati che il socio di controllo trae dalla sua posizione di influenza, assunto pari al 10% del valore complessivo della società, con una perdita ulteriore di valore della partecipazione di controllo, stimata in euro 165,5 milioni (v. doc. 53 di parte Fininvest a pag. 23).

Infine, sempre secondo la stima del consulente di parte, dovrebbe aggiungersi alle voci di danno emergente che precedono, la voce di lucro cessante costituita dalla perdita dell’upside di mercato, cioè della possibilità di Fininvest di fruire, nello stesso periodo, del rialzo dell’indice generale del mercato borsistico nazionale (indice FTSE MIB), a cui il titolo Mediaset era stato allineato sino al momento della rottura dell’accordo, con un’ulteriore perdita di 657,6 milioni, ottenuta moltiplicando il differenziale tra il valore di quotazione effettiva e quello di quotazione teoricamente attesa sulla base dell’andamento dell’indice FTSE MIB, per il numero di azioni rappresentative della partecipazione strategica detenuta da Fininvest (v. doc. 53 di parte Fininvest a pag. 35).

A prescindere dalle aspre critiche mosse alla prospettazione sotto il profilo tecnico dai consulenti della società convenuta (v. doc. 242 di parte convenuta), tutta la ricostruzione teorica sottesa alla prospettazione del danno fornita da Fininvest nel corso del giudizio poggia su un evidente equivoco di fondo: assume, cioè, per scontato il fatto che dall’andamento al ribasso del prezzo del titolo quotato in borsa derivi necessariamente ed immediatamente una corrispondente perdita di valore economico della partecipazione del socio della società emittente e, quindi, un danno risarcibile.

Che l’assioma sia fuorviante è evidente anche solo notando che nessuno considera perduto o pregiudicato l’investimento dell’azionista per il momentaneo ribasso del prezzo di borsa dei titoli sino a che rimangono nel suo portafoglio in attesa del momento di rialzo propizio per la vendita.

Nella stima del valore della partecipazione sociale in una società quotata si accentua, indubbiamente, la sua natura di investimento del socio, soggetto oltre che al comune rischio derivante dall’esercizio dell’attività di impresa anche all’oscillazione del prezzo del titolo in borsa dovuto ai fattori più svariati, non necessariamente connessi alla situazione patrimoniale economico e finanziaria della società emittente, che lo espone ad un rischio di perdita dell’investimento inversamente proporzionale alla curva di ribasso del titolo.

L’oscillazione del valore di borsa del titolo è, però, una componente fisiologica del rischio gravante sul socio di una società quotata che, anche se dovuto ad un evento anomalo, non determina di per sé alcun danno effettivo all’azionista ma resta a livello di indicatore della misura del rischio che l’investimento sta correndo in un determinato momento, per tradursi in perdita economica effettiva solo quando la partecipazione dovesse essere dismessa a prezzo inferiore rispetto a quello a cui è stata acquistata.

L’andamento al ribasso del prezzo di borsa del titolo rappresenta, quindi, per l’azionista un pregiudizio meramente potenziale che può tradursi in una perdita economica effettiva e attuale solo con la dismissione della partecipazione.

L’esistenza di un danno risarcibile per l’azionista richiede, quindi, che l’illecito prospettato abbia determinato l’assestarsi durevole e senza prospettive di risalita della tendenza al ribasso del titolo che lo abbia costretto alla dismissione della partecipazione a prezzo deteriore.

La situazione non muta per il socio titolare di una partecipazione rilevante, cioè di consistenza quantitativa tale da consentigli di esercitare un’influenza dominante o il controllo sulla società emittente.

In questo caso alla variazione del rischio di perdita dell’investimento comune alla platea degli azionisti può aggiungersi, a seconda della quantità e composizione del flottante, l’aumento del rischio della perdita del controllo della società emittente, rendendo possibili a costo contenuto acquisizioni c.d. ostili, cioè non concordate, finalizzate alla sostituzione del governo dell’impresa.

Anche questo è un rischio tipico del socio titolare di una partecipazione rilevante in una società quotata, connesso alla struttura stessa della sua compagine sociale, indistintamente aperta a chiunque intenda investire nell’impresa comune, che non gli consente di nutrire alcuna aspettativa alla conservazione dell’assetto proprietario che gli assicura il governo dell’impresa, meno che mai in un mercato che attraverso la disciplina della trasparenza degli assetti proprietari e dell’OPA tende ad incentivare la “contendibilità” del governo delle società quotate per assicurare una gestione quanto più efficiente possibile dell’impresa comune, finanziata attingendo alle risorse di azionisti di minoranza tendenzialmente inerti.

In ogni caso, anche questo rischio specifico del socio titolare di una partecipazione rilevante rappresenta un pregiudizio solo a livello potenziale che non può dirsi venuto ad effettiva esistenza ove, nel periodo di ribasso del titolo, il pacchetto azionario di controllo o la partecipazione rilevante siano rimasti saldamente nelle mani del socio di maggioranza.

A questo punto è chiaro che il danno lamentato da Fininvest per la perdita di valore della sua partecipazione in Mediaset a seguito del momentaneo crollo di borsa del titolo derivato dal fallimento dell’operazione di creazione dell’alleanza strategica non sussiste in mancanza dell’avvenuta dismissione della partecipazione sociale a condizioni deteriori o dell’effettiva perdita del controllo della società emittente in ragione del ribasso del titolo, mai prospettate dalla società attrice nel corso del giudizio e, notoriamente, mai avvenute.

Del resto la società attrice si è ben guardata dall’allegare di aver proceduto alla svalutazione in bilancio della sua partecipazione in Mediaset in misura corrispondente all’ingente perdita di valore lamentata nel presente giudizio.

Anche in questo caso il consulente di parte della società attrice ha fornito una configurazione accademica delle potenzialità di danno a cui il valore della partecipazione di Fininvest in Mediaset sarebbe stata esposta nel periodo successivo al naufragio dell’operazione programmata, in alcun modo utile alla prova dell’esistenza effettiva del pregiudizio economico lamentato.

B) danno ai processi decisionali e alla pianificazione strategica da liquidare in una somma non inferiore ad euro 150.000.000,00.

Al riguardo la Fininvest ha sostenuto di aver subito, a seguito della situazione di stallo ed incertezza derivati dal fallimento per il “voltafaccia” di Vivendi di un’operazione di straordinaria valenza strategica per l’intero gruppo, la lesione del suo diritto a “programmare le proprie iniziative economiche in base ad efficienti processi decisionali e secondo un’ordinata pianificazione strategica” costituente “un bene primario per ogni imprenditore, ma in modo particolare per una holding al vertice di governo di un grande gruppo di rilevanti assets in settori strategici per il Paese.” ed ha richiesto la liquidazione in via equitativa del danno che non potrebbe essere provato nel suo preciso ammontare.

La prospettazione contenuta già nell’atto di citazione non è stata, nel corso della trattazione della causa, in alcun modo precisata sotto il profilo dell’allegazione degli specifici processi decisionali interni che sarebbero stati bloccati dal fallimento dell’operazione strategica programmata con Vivendi, peraltro sottoposta all’epoca della rottura del vincolo a condizione sospensiva che ne rendeva, comunque, obiettivamente incerto il compimento, richiedendo alla società al vertice del gruppo di prepararsi anche ad un rapida “riprogrammazione” delle iniziative economiche assunte nell’ipotesi di mancato avveramento.

L’estrema genericità dell’allegazione del pregiudizio, nella situazione descritta, non consente in alcun modo di affermare l’esistenza del danno lamentato, necessario presupposto della invocata liquidazione in via equitativa.

C) danno alla reputazione e immagine da liquidare in una somma non inferiore ad euro 150.000.000,00.

In proposito la Fininvest ha sostenuto che Vivendi avrebbe arrecato danno alla sua immagine, accreditando nell’opinione pubblica l’idea che l’accordo dell’8 aprile 2016 non fosse conclusivo e non assicurasse il buon esito dell’operazione e che l’abbandono da parte sua dell’affare sarebbe derivato dalla scoperta di essere stata raggirata.

Ad escludere l’esistenza di qualsiasi elemento di prova del danno lamentato da Fininvest sotto questo profilo è sufficiente sottolineare che essa si è limitata a richiamare a supporto probatorio una raccolta di articoli di stampa di ottanta pagine (v. doc. 45 di parte Fininvest) senza neanche indicare quali sarebbero state le espressioni offensive di Vivendi specificamente dirette nei suoi confronti e idonee a pregiudicare la sua reputazione in una vicenda negoziale che aveva il suo fulcro nelle trattative e nell’accordo intercorso tra Vivendi e Mediaset.

Né è possibile configurare la lesione della reputazione del “gruppo” nel suo complesso privo notoriamente di soggettività giuridica.

In sintesi la domanda risarcitoria proposta da Fininvest nei confronti di Vivendi è priva di fondamento in ragione dell’inconfigurabilità nella vicenda dei profili di responsabilità contrattuale o aquiliana delineati a fondamento della pretesa risarcitoria e della parimenti palese non configurabilità o carenza di prova dei pretesi pregiudizi economici lamentati in conseguenza del comportamento della società convenuta.

La domanda deve, pertanto, essere respinta.

Non resta ora che esaminare la domanda riconvenzionale proposta in questo giudizio da Vivendi per ottenere il risarcimento del danno subito per l’ombra gettata sulla sua reputazione internazionale dall’aggressiva campagna di stampa denigratoria che le aveva attribuito le stimmate del “capitalismo cannibalesco” o della “metastasi” che “prospera sulla distruzione della ricchezza altrui”, insinuando il sospetto che il rifiuto di concludere l’operazione strategica programmata fosse preordinato a spodestare illegittimamente Fininvest dal controllo di Mediaset, avvalorato dalla notizia della presentazione di un esposto alla Procura della Repubblica per il reato di manipolazione del mercato.

Anche alla condotta diffamatoria attribuita a Fininvest la società convenuta ha correlato la diminuzione della considerazione di cui godeva presso i soggetti con cui interagisce nell’esercizio della propria attività di impresa nel settore dei media, compresi gli investitori istituzionali e gli investitori delle altre società in cui è azionista rilevante, già attribuita nella causa riunita alla campagna denigratoria proveniente da Mediaset.

Come già sottolineato esaminando le diverse domanda fondate dalle parti sulla lesione della loro reputazione, la giurisprudenza di legittimità in materia di danno all’immagine delle società richiede per l’affermazione della responsabilità la prova dell’effettiva lesione della reputazione commerciale dell’ente nel settore di mercato dove svolge la sua attività di impresa che, ove presuntiva, deve essere fondata su elementi di fatto specifici e concreti non potendo tautologicamente essere desunta dalla portata offensiva delle notizie propalate.

Nella situazione in esame, al di là dei toni indubbiamente “coloriti” che ha assunto la narrazione della vicenda negli articoli di stampa citati, Vivendi non ha dedotto alcuno specifico elemento di fatto che consenta di inferire che ne sia derivata un’effettiva lesione della sua reputazione presso gli investitori o gli utenti dei servizi che offre nel settore dei media sul mercato internazionale.

E anche in questo caso non è affatto scontato che la portata potenzialmente offensiva delle pubblicazioni in questione abbia scalfito la sua reputazione di società al vertice di un colosso nel mercato del settore.

Anche la domanda riconvenzionale risarcitoria deve, pertanto, essere respinta.

Il regime delle spese processuali.

All’esito del giudizio devono essere liquidate separatamente le spese processuali relative a ciascuna della cause riunite, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, che ha ripetutamente affermato il principio per cui “il provvedimento discrezionale di riunione di più cause lascia immutata l’autonomia dei singoli giudizi e non pregiudica la sorte delle singole azioni. Ne consegue che la congiunta trattazione lascia integra la loro identità, tanto che la sentenza che decide simultaneamente le cause riunite, pur essendo formalmente unica, si risolve in altrettante pronunce quante sono le cause decise, mentre la liquidazione delle spese giudiziali va operata in relazione a ciascun giudizio.” (Cass. 10.7.2014 n. 15860; Cass. 13.7.2006 n.15954; Cass. 12.6.2001 n. 7908).

La reciproca parziale soccombenza delle parti in ordine alle domande svolte nella causa RG. n. 47205/2016 giustifica la compensazione nella misura di un terzo delle spese processuali che si liquidano per l’intero, in applicazione dei parametri dello scaglione riferito alla somma riconosciuta alle società attrici a titolo di risarcimento del danno e considerata la complessità della causa e l’opera professionale prestata, in € 60.000,00 per compenso di avvocato oltre al 15% per spese generali ed oneri di legge e si pongono per i restanti due terzi a carico di Vivendi.

La reciproca soccombenza delle parti in relazione alle domande svolte nella causa RG n. 47575/2016 giustifica la compensazione nella misura di un terzo delle spese processuali che si liquidano per l’intero, avuto riguardo all’entità notevolissima del valore della causa ed alla complessità dell’attività difensiva svolta, in € 450.000,00 per compenso di avvocato oltre al 15% per spese generali ed oneri di legge e si pongono per i restanti due terzi a carico di Fininvest s.p.a.

 

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, nelle cause civili riunite n. 47205/ 2016 e 47575/2016 promosse, la prima da Mediaset s.p.a. e Reti Televisive Italiane s.p.a. contro Vivendi s.a. con atto di citazione notificato il 19 agosto 2016 e la seconda da Finanziaria di Investimento Fininvest s.p.a. contro Vivendi s.a., con atto di citazione notificato il 23 agosto 2016, con l’intervento volontario di Mediaset Premium s.p.a. disattesa ogni altra istanza, eccezione e deduzione, così provvede:

Nella prima causa

1) dichiara l’avvenuta risoluzione del contratto sospensivamente condizionato, stipulato dalle parti l’8 aprile 2016, per effetto della specifica previsione contrattuale di cui alla clausola 2.2 ultimo periodo;

2) accerta l’inadempimento di Vivendi S.A. agli obblighi preliminari e prodromici all’avveramento della condizione previsti dalla clausola 2.2. lett. b) e c) dell’accordo e la condanna al risarcimento del danno a favore di Mediaset s.p.a., mediante pagamento della somma di € 1.202.419,28, ed a favore di RTI s.p.a., mediante pagamento della somma di € 514.167,07, oltre interessi di mora nella misura legale sulla somma anno per anno rivalutata dall’8 giugno 2018, sino al saldo;

3) respinge tutte le altre domande proposte da Mediaset s.p.a. e da RTI s.p.a. anche quale incorporante Mediaset Premium s.p.a. nei confronti Vivendi s.a.;

4) respinge le domande riconvenzionali proposte Vivendi s.a. nei confronti di Mediaset s.p.a. e RTI s.p.a.

5) dichiara compensate fra le parti nella misura di un terzo le spese processuali che liquida, per l’intero, in € 60.000,00 per compenso di avvocato oltre al 15% per spese generali ed oneri di legge e pone per i restanti due terzi a carico di Vivendi s.a.

Nella seconda causa:

1) dichiara inammissibili le domande proposte da Fininvest s.p.a. nei confronti di Vivendi s.a. ai punti I.a), I.b), I.b-bis) delle conclusioni;

2) respinge la domanda proposta da Fininvest s.p.a. nei confronti di Vivendi s.a. al punto II) delle conclusioni;

3) respinge la domanda riconvenzionale proposta da Vivendi s.a. nei confronti di Fininvest s.p.a.;

4) dichiara compensate fra le parti nella misura di un terzo le spese processuali che liquida, per l’intero, in € 450.000,00 per compenso di avvocato oltre al 15% per spese generali ed oneri di legge, e pone per i restanti due terzi a carico di Fininvest s.p.a.

 

Milano, 18 febbraio 2021

 

Il Presidente

Angelo Mambriani

 

Il Giudice estensore

Daniela Marconi