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12 febbraio 2019

Cassazione: il datore di lavoro è tenuto a concedere al dipendente l’accesso ai propri dati valutativi

di Annalisa Spedicato

Il dipendente ha il diritto di avere accesso ai propri dati valutativi. Spetta al datore di lavoro individuare le misure opportune per evitare che il proprio lavoratore, in occasione dell’accesso ai propri dati personali, possa venire a conoscenza anche di informazioni diverse, non strettamente connesse ai suoi dati.

Così la Corte di Cassazione (Cass. Civ. Sez. 1 - ord. n. 32533/2018) ha respinto il ricorso di una banca che, a sua volta, aveva rigettato la richiesta di un proprio dipendente di conoscere, nell’ambito di un procedimento disciplinare, i dati valutativi afferenti al suo profilo detenuti dalla datrice di lavoro al fine di esercitare i suoi diritti di difesa avverso una sanzione disciplinare inflittagli, precisando che concedere al dipendente di acquisire tali informazioni, avrebbe significato ledere il proprio diritto alla segretezza e quello di terzi, considerando che ai dati valutativi del dipendente erano strettamente congiunte ulteriori informazioni aziendali e riferite ad altri soggetti.

Per tale motivo, il dipendente si era rivolto al Garante dei dati personali, che, rilevato il carattere di dato personale dei dati valutativi ovvero di quelle informazioni personali che non hanno carattere oggettivo, ma sono riferite "a giudizi, opinioni o ad altri apprezzamenti di tipo soggettivo", chiariva che anche per tali informazioni un interessato può esercitare i diritti di cui all’art. 7 del Codice Privacy (si rende noto che la questione di cui si discorre afferiva a fatti verificatisi in vigenza del D.Lgs. n. 196/2003 nella formulazione ante D.Lgs. n. 101/2018 e dunque prima del GDPR, sebbene la decisione della Cassazione possa dirsi valida anche dopo l’entrata in vigore del Regolamento n. 679/2016) e che, dunque, la banca era tenuta a fornire l’accesso al dipendente a tali informazioni. L’istituto di credito, però, si opponeva al provvedimento del Garante, proponendo ricorso innanzi al Tribunale di Roma che rigettava l’opposizione, sottolineando come la Banca "ben avrebbe potuto limitarsi ad estrapolare eventuali passaggi della predetta documentazione non conferenti rispetto alla richiesta del lavoratore, laddove gli stessi potessero risultare pregiudizievoli del diritto alla riservatezza di terzi, ma non poteva conculcare il diritto del dipendente di avere piena contezza dei rilievi che gli erano stati mossi", precisando altresì che "non può essere in facoltà della parte (la banca) decidere discrezionalmente ciò che può essere reso manifesto e ciò che può non esserlo, perché una tale impostazione rimetterebbe alla società ricorrente ogni determinazione anche sugli spazi di difesa della controparte".

Motivazione, quella del giudice romano, accolta dalla Cassazione. Secondo gli ermellini, infatti, la richiesta del dipendente appariva del tutto coerente ai principi in tema di difesa nel procedimento disciplinare e nel giudizio; la banca, scrivono i giudici di legittimità, aveva la possibilità di estrapolare i dati personali del dipendente nascondendo le altre informazioni, in questo modo non si sarebbe verificata alcuna lesione del diritto alla riservatezza altrui che pur si trova sullo stesso piano costituzionale dei diritti del dipendente di venire a conoscenza di proprie informazioni personali per difendersi in un giudizio. E’ corretta dunque la valutazione del giudice di merito che ha, nella specie, individuato un equo bilanciamento dei vari interessi di rango costituzionale in gioco, valutando ponderatamente la specifica situazione sostanziale.

Peraltro, continuano i giudici, il diritto di accesso ex art. 7 del D.Lgs. n. 196 del 2003 non può intendersi, in senso restrittivo, come il mero diritto alla conoscenza di eventuali dati nuovi ed ulteriori rispetto a quelli già entrati nel patrimonio di conoscenza e, quindi, nella disposizione dello stesso soggetto interessato al trattamento dei propri dati, atteso che scopo della norma suddetta è garantire, a tutela della dignità e riservatezza del soggetto interessato, la verifica ratione temporis dell'avvenuto inserimento, della permanenza, ovvero della rimozione di dati, indipendentemente dalla circostanza che tali eventi fossero già stati portati per altra via a conoscenza dell'interessato, verifica attuata mediante l'accesso ai dati raccolti sulla propria persona in ogni e qualsiasi momento della propria vita relazionale.

La Cassazione proprio sul tema del diritto del dipendente di avere accesso al proprio fascicolo riguardante vicende del rapporto di lavoro, sia che si tratti di documentazione detenuta ai fini di legge (come per i libri paga e matricola), o prevista dall’organizzazione aziendale (tramite circolari interne), si  era già  pronunciata, chiarendo che in tali documenti sono contenuti dati valutativi del dipendente che formano oggetto di diritto di accesso, ex art. 7 del citato decreto legislativo, trattandosi di dati personali (cfr. Cass. n. 9961 del 2007).

La normativa in materia di trattamento di dati personali riconosce, dunque, al dipendente il diritto di accesso alle informazioni personali relative ai suoi dati valutativi per esercitare i propri diritti di difesa nel contesto di un procedimento disciplinare. Se assieme a tali dati risulta la presenza di informazioni di terzi che al pari di questi sono tutelati dal diritto alla segretezza, spetta al datore di lavoro individuare le misure opportune per bilanciare gli interessi contrastanti in gioco, concedendo al lavoratore di venire a conoscenza dei propri dati personali valutativi. 

 


Annalisa Spedicato

Avvocato esperto in IP, ICT e Privacy