12 settembre 2018
Telefonia mobile: violazione del diritto alla portabilità dei dati
di Annalisa Spedicato
E' valido il recesso dal contratto di telefonia mobile se non viene rispettato il diritto alla portabilità. Così ha deciso la Corte di Cassazione nella sentenza n. 17586 del 5 luglio 2018, cassando la decisione dei giudici d’appello ed esprimendo un interessante principio di diritto, in un caso in cui un consumatore, agendo in giudizio, aveva chiesto la dichiarazione della risoluzione di un contratto da lui sottoscritto con una compagnia telefonica per grave inadempimento contrattuale, in quanto il servizio accessorio riferito alla portabilità dei suoi dati, connesso al suo abbonamento mobile, non gli era mai stato attivato.
I giudici di primo grado avevano accolto le sue lamentele, dichiarando risolto il contratto, diversamente, in grado di appello, tale decisione era stata ribaltata, pertanto il consumatore, contro la decisione di seconde cure, aveva promosso ricorso in Cassazione.
I giudici d’appello avevano deciso in favore dell’azienda fornitrice del servizio telefonico sulla base del presupposto che essa aveva adempiuto correttamente ai suoi obblighi. La clausola contenuta nelle condizioni di contratto era descritta come un servizio che consentiva al cliente di cambiare l’operatore di telefonia, mantenendo lo stesso numero telefonico; secondo i giudici d’appello essa conteneva un obbligo che risultava "accessorio" rispetto a quello principale di fornitura del servizio di telecomunicazione e non poteva, quindi, essere considerata essenziale. Perché si potesse attivare tale servizio accessorio, era necessaria anche la condotta positiva e collaborativa del gestore "donating" (ovvero gestore di rete telefonica), considerando che le attività che doveva svolgere il "recipient" (la compagnia telefonica con cui il consumatore aveva sottoscritto il contratto di servizio) erano, di per sé, insufficienti per la realizzazione del trasferimento; ragion per cui, i giudici assumevano che, comunque, risultava pacifico dagli atti che la società fornitrice del servizio avesse per sua parte compiuto quanto di sua spettanza in base al contratto che, pertanto, non poteva essere dichiarato risolto per inadempimento.
Di tutt’altro parere la Cassazione, secondo cui, sebbene la controversia si riferisse a fatti antecedenti all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 206/2005, i contratti stipulati dai consumatori godevano comunque della speciale tutela introdotta dall’art. 25 della L. n. 52/1996, di attuazione della direttiva 93/13/CEE, concernente le clausole abusive. Si deve proprio a tale disposizione l’introduzione degli artt. 1469 bis, ter, quater, quinquies e sexies cod. civ. (oggi abrogati dal Codice del consumo), riguardo alla vessatorietà delle clausole che, malgrado la buona fede, ma in presenza di alcuni presupposti, possono snaturare il sinallagma contrattuale nei contratti fra consumatore e professionista, con conseguenze negative per la parte contrattuale più debole.
Pertanto, dice la Cassazione, nonostante il riferimento normativo sia antecedente al Codice del consumo, tuttavia, quella disposizione codicistica, vigente prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 206/2005 contiene principi ad esso sovrapponibili e trasferiti dalla direttiva comunitaria innanzi citata.
Ai fini dell’applicazione della disciplina di cui agli artt. 1469 bis e segg. cod. civ., ricorda la Cassazione, deve essere considerato "consumatore" la persona fisica che, anche se svolge attività imprenditoriale o professionale, conclude un qualche contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana aliene dall’esercizio della propria attività professionale, mentre deve essere considerato "professionista" tanto la persona fisica, quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che, invece, utilizza il contratto nell’ambito della propria attività imprenditoriale o professionale. Perchè ricorra la figura del "professionista" non è necessario che il contratto sia posto in essere nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa o della professione, essendo sufficiente che esso venga posto in essere per uno scopo connesso all’esercizio dell'attività imprenditoriale o professionale" (cfr. Cass. 11933/2006; Cass. 4208/2007; Cass. 13083/2007; Cass. 21763/2013). Valutazione quella sulla qualità del consumatore, rimessa al giudice di merito e peraltro rilevabile d’ufficio. Con particolare riferimento all’applicabilità, alla clausola in esame della disciplina di cui agli artt. 1469 bis e seguenti del c.c., essa quindi va considerata vessatoria, indipendentemente dal valore di essa, accessorio o essenziale, nell’economia dell’intero contratto e alla responsabilità del gestore recipient in relazione alle omissioni del donating.
La Suprema Corte cassa dunque la sentenza impugnata, rinviandola al giudice di merito, il quale dovrà decidere nuovamente la controversia sulla base del seguente principio di diritto espresso nell’occasione dagli ermellini:
"Nell’ambito dei contratti di telefonia mobile, al fine di valutare le pattuizioni contenute nelle condizioni generali di contratto e nelle opzioni prescelte dall'utente, il giudice deve preliminarmente, anche d'ufficio, individuare la qualità dei contraenti al fine di valutare correttamente, alla luce del principio sinallagmatico, l'eventuale squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dalle clausole stipulate e la loro vessatorietà con tutte le conseguenze da ciò derivanti".
Annalisa Spedicato
Avvocato esperto in IP, ICT e Privacy